"Le operazioni militari israeliane
a Gaza stanno lasciando devastazione sui territori e uno
spaventoso numero di vittime, tra cui molti giornalisti
palestinesi che, nonostante l'assedio e le condizioni disumane,
continuano a documentare la tragedia in corso": è il quadro
emerso dall'incontro "Coprire Gaza, nonostante gli ostacoli"
nell'ambito del festival internazionale del giornalismo in corso
a Perugia. Se n'è parlato attraverso le testimonianze dirette di
Youmna El Sayed, corrispondente della Striscia di Gaza per Al
Jazeera English, di Nadim Nashif, imprenditore sociale e
difensore dei diritti digitali, e di Wafa' Abdel Rahman,
fondatrice di "Filastiniyat: media for women and youth" con sede
a Ramallah. A moderare l'incontro Lina Attalah, co-fondatrice
del sito di notizie con sede al Cairo "Mada Masr".
"Da qui - ha detto Youmna ElSayed - vorrei rendere omaggio
allo straordinario lavoro di ogni giornalista palestinese che
sta raccontando questo genocidio nella Striscia di Gaza. Fin dal
primo giorno l'esercito israeliano ha reso molto ovvio a noi
giornalisti che siamo bersagli diretti in questa guerra. Abbiamo
visto molti dei nostri colleghi cadere, essere feriti o uccisi.
Siamo stati costretti a lasciare i nostri uffici, a lavorare
senza strumenti, senza attrezzature, trovandoci in condizioni
molto dure. Nella Striscia di Gaza oltre 130 giornalisti
palestinesi sono stati uccisi e dozzine di persone sono rimaste
ferite". Per Youmna ElSayed "i giornalisti internazionali hanno
trascurato e abbandonato il loro diritto di costringere
l'esercito israeliano a lasciarli entrare nella Striscia di Gaza
per coprire questa guerra". "E' qualcosa che non ha precedenti -
ha proseguito - e non è accaduto in nessun'altra parte del
mondo. I giornalisti palestinesi hanno fatto quello che
potevano, nonostante tutte le sofferenze e le sfide che hanno
dovuto affrontare nell'ultimo mese. Sentirsi dire che il
problema principale del conflitto è che non ci sono giornalisti
sul campo che raccontano la guerra, è un vero e proprio insulto
senza precedenti a tutti coloro che sono stati uccisi, che hanno
perso le loro famiglie, che hanno perso le loro case e a quei
giornalisti che sono ancora vivi ma sono feriti". "Vedete sui
vostri schermi i bombardamenti e i bambini uccisi e feriti e le
persone sfollate in migliaia di tende che si sono estese ovunque
- ha detto ancora la giornalista - ma non si vedono i dettagli
di come queste persone vivono all'interno di queste tende, di
quanto lottano per avere un po' d'acqua da bere, per procurarsi
un po' di cibo, per sfamare i loro figli. Nessuno ne parla.
Quanti giornalisti e media sono stati complici di questo
genocidio? Non parlarne è complicità. Parlare e schierarsi dalla
parte dell'oppressore, dell'occupante, accettare 1a narrazione
di parte, anche questa è complicità".
Per Rafa Aberman "il primo principio è credere alle
vittime". "Le vittime non vengono credute - ha detto - e devono
dimostrare al mondo che i bombardamenti e i proiettili
israeliani uccidono davvero, che il sangue è vero. Nella prima
settimana in cui stavamo facendo il reportage, l'abbiamo
chiamata 'Gaza sotto attacco'. Ma poi la seconda settimana ho
preso la decisione come femminista, di parlare di genocidio di
Gaza, e non di attacco o guerra. Al mio team ho detto: dobbiamo
aspettare che la comunità internazionale dica che si tratta di
genocidio? no, è esattamente come una donna che viene stuprata
ma poi non ti è permesso usare la parola stupro".
Riproduzione riservata © Copyright ANSA