Il pelo del gatto può incastrare il responsabile di un delitto, inchiodandolo alla scena del crimine o alla sua stessa vittima: questo grazie a una nuova tecnica di estrazione del Dna che potrebbe essere applicata anche al pelo del cane. L'hanno messa a punto i ricercatori dell'Università britannica di Leicester, che pubblicano i risultati sulla rivista Forensic Science International: Genetics.
I gatti sono sempre più diffusi come animali domestici e chi ci convive sa quanto sia difficile liberarsi delle migliaia di peli che disseminano ovunque: è praticamente impossibile uscire di casa senza portarsene dietro qualcuno attaccato ai vestiti. E' dunque molto probabile che lo stesso accada anche a un criminale che dovesse intrufolarsi in casa: per quanto possa stare attento a non lasciare in giro impronte digitali o tracce biologiche, potrebbe portarsi inavvertitamente dietro alcuni peli dell'animale che abita lì. Un indizio importante per la ricostruzione del misfatto, che però bisogna saper sfruttare appieno.
"Il pelo perso dal gatto è privo della radice, quindi contiene pochissimo Dna utilizzabile", spiega la prima autrice dello studio, Emily Patterson. "In pratica possiamo solo analizzare il Dna mitocondriale, che viene trasmesso dalle madri alla prole ed è condiviso tra i gatti imparentati per via materna". Ciò significa che il Dna del pelo non permette di identificare un singolo gatto ben preciso, per cui è fondamentale massimizzare l'estrazione di informazioni per restringere il più possibile il cerchio. Questo è quanto consente di fare la nuova tecnica sviluppata dai ricercatori britannici, che permette di determinare la sequenza dell'intero Dna mitocondriale, garantendo un risultato che è circa dieci volte più discriminante rispetto a quello prodotto con una tecnica precedente, che ne esaminava solo un breve frammento.
"Nelle indagini in cui non è disponibile il Dna umano da testare, i peli di animali domestici sono una preziosa fonte di collegamento delle prove e il nostro metodo lo rende molto più potente", sottolinea il genetista Mark Jobling. "Lo stesso approccio - aggiunge - potrebbe essere applicato anche ad altre specie, in particolare ai cani".
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