Consumi in in un anno pari alla metà dell'elettricità usata in Italia, l'acqua necessaria a 300 milioni di contadini dell'Africa subsahariana e per bilanciarne le emissioni servirebbero 3.9 miliardi di alberi: è l'impatto della produzione dei Bitcoin, la prima e più diffusa delle criptomonete. A misurare l'impatto del cosiddetto mining, ossia i processi necessari a mantenere operativa la rete dei Bitcoin, è lo studio realizzato da Kaveh Madani, dell'Università delle Nazioni Unite, e pubblicato sulla rivista Earth s Future.
Le criptovalute hanno ormai assunto un ruolo importante nell'economia mondiale, in particolare nei mercati finanziari e nel trading, e nonostante alcuni recenti svalutazioni continuano a crescere ma la loro produzione, o più precisamente il mining, ha anche un grande impatto ambientale. Lo studio realizzato dal braccio accademico delle Nazioni Unite si è concentrato in particolare sui Bitcoin, la prima criptomonete e di gran lunga la più diffusa, la cui esistenza si poggia su un meccanismo noto come mining, un processo informatico necessario a validare le transazioni e che permette la costante crescita della rete ma che ha bisogno di un alto consumo di energia.
I dati riferiti al periodo 2020-2021 indicano che il mining dei Bitcoin ha consumato 173.42 Terawatt ore di elettricità (l'Italia ne consuma 295), se fosse una nazione sarebbe la 27esima al mondo, sopra al Pakistan in cui vivono 230 milioni di persone.
Un'impronta ambientale di emissioni di carbonio equivalente a 190 centrali elettriche a gas naturale che dovrebbero essere compensate dalla piantumazione di 3.9 miliardi di alberi, il 7% della foresta amazzonica, e un consumo di acqua pari all'uso che ne farebbero 300 milioni di persone dell'Africa subsahariana. Lo studio sottolinea, inoltre, che la gran parte dell'energia usata per il mining dei Bitcoin arriva da fonti fossili, il 45% dal carbone e il 21% da gas naturale e il grosso delle attività si concentra in Cina.
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