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Responsabilità editoriale di ASviS
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Nel mondo esistono all’incirca settemila malattie rare, che colpiscono 400 milioni di persone. Tre quarti di queste malattie, secondo Global Genes, sono di origine genetica, e affinché le cure possano funzionare, devono essere individuate (nel caso di malattie infantili) nei primi giorni di vita. Per questa ragione, secondo l’"Economist", molti medici si dichiarano favorevoli a sequenziare l’intero genoma dei bambini fin dalla loro nascita.
Lo "screening" delle malattie genetiche in età infantile non è un'idea nuova. In Nord America, Europa e Medio Oriente, i neonati vengono spesso sottoposti a "screening" alla nascita per una serie di malattie ereditarie, come l'anemia falciforme, la talassemia e la fibrosi cistica. Ma la sequenza dell'intero genoma offre la prospettiva di rilevare migliaia di disturbi, e con essi far nascere numerose questioni etiche.
In America, ad esempio, esistono già al giorno d’oggi progetti che permettono di mappare il genoma di un bambino, al Boston Children's Hospital, alla Columbia University e al Reddy Children's Hospital di San Diego. Un gruppo pionieristico di Harvard, noto come BabySeq, ha recentemente ricevuto dei finanziamenti per espandere i suoi progetti di ricerca sulla mappatura del genoma dei bambini. In Europa, sta prendendo il via un progetto quinquennale – Screen4Care – che si pone gli stessi obiettivi. Sforzi simili vengono portati avanti anche in Australia, Cina e Qatar. Ma l’epicentro della ricerca si trova in Gran Bretagna, dove la società a partecipazione statale Genomics England, originariamente istituita per condurre la ricerca “100.000 Genome Project” – volto a studiare la mappatura di malattie genetiche e cancro negli adulti – lancerà presto un progetto pilota per sequenziare i genomi di 200mila bambini.
Diagnosi precoce significa, naturalmente, un trattamento precoce e migliori condizioni di vita per i bambini. Ma lo screening genetico può comportare anche il rilevamento di malattie che potrebbero verificarsi più tardi nella vita dei figli, mettendo i genitori, qualora una cura non esistesse, davanti alla dura realtà dei fatti.
Mentre i tecno-utopisti potrebbero sostenere che conoscere ogni malattia futura del proprio corpo possa essere vantaggioso, i genitori dei neonati sono più cauti. In un convegno sul tema svoltosi presso il Genomics England di Londra, Richard Scott, chief medical officer dell'organizzazione, ha affermato che le discussioni con genitori e medici hanno portato il team a concludere che le persone desiderano programmi di "screening" neonatale su un numero di patologie inferiore a quelle attese. I test più richiesti sono stati quelli associati alle malattie infantili, per le quali è fondamentale un trattamento precoce. Secondo il genetista clinico David Beeke, un’altra scoperta significativa di questa ricerca è che i genitori vogliono certezze: “Trovano inutile sentirsi dire che per un bambino è ‘abbastanza probabile’ avere una malattia. Vogliono un ‘sì’ o un ‘no’”.
Molti genitori non desiderano conoscere le malattie in cui un giorno, da adulti, potrebbero incorrere i loro figli. Ciò significa escludere tutti quei test che potrebbero indicare il rischio di sviluppare un cancro, il diabete o il morbo di Alzheimer. In questi casi, infatti, i genitori sono propensi a lasciare ai loro figli la scelta, dando loro la possibilità di cercare queste informazioni con l’avanzare dell’età. “Pertanto, gli "screening" che Genomics England applicherà verranno scelti con attenzione”, ha affermato Scott. Al momento, l'elenco proposto comprende diverse centinaia di voci, ma Scott pensa che questo numero crescerà a mano a mano che aumenterà la consapevolezza sul tema e sui nuovi trattamenti che permetteranno di curare un numero più cospicuo di malattie genetiche.
Un’altra domanda significativa riguarda la sicurezza di questi dati. Mentre il consenso sui dati è alla base della policy di Genomics England, ciò potrebbe non verificarsi in altri istituti o aziende. La tentazione di hackerare i database genetici potrebbe infatti essere molto forte, in particolare per il settore farmaceutico e quello delle compagnie assicurative.
Editing genomico: la rivoluzione del Crispr-Cas9
Se si parla di mappatura di problemi genetici si parla anche del modo in cui questi vengono curati, e quindi del metodo più innovativo che abbiamo a oggi per editare il genoma, ovvero Crispr-Cas9. Secondo l’Osservatorio per le terapie avanzate l’editing genomico è “una tecnologia altamente innovativa che funziona come un ‘correttore di bozze’ del Dna: interviene in maniera precisa per trovare e correggere gli errori genetici all’interno dell’intero genoma”. Per questa ragione, molti considerano l’editing genomico la “terapia genica del futuro”, poiché permette di correggere un gene difettoso direttamente in loco, senza introdurre copie corrette del gene dall’esterno.
Crispr-Cas9 o semplicemente Crispr (Clustered regularly interspaced short palindromic repeats, traducibile in italiano con “brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate a intervalli regolari”) è stato scoperto nel 2012. Questa tecnica, che è valsa a Emmanuelle Charpentier, direttrice del Max Planck Unit for the Science of Pathogens a Berlino, e Jennifer A. Doudna, professoressa all’University of California, la vittoria del premio Nobel per la chimica nel 2020, ha dimostrato già dai primi esperimenti le sue grandi potenzialità: “Qualunque tipo di cellula vegetale, animale, inclusa quella umana, può essere modificata geneticamente e la correzione può avvenire anche per un singolo errore, e ovunque nel genoma”, si legge sul sito dell’Osservatorio. Inoltre, questa tecnica è facile da usare, veloce ed economica.
Nello specifico, Crispr funziona tramite l’enzima Cas9 che, guidato da una molecola di Rna (chiamata appunto Rna guida), taglia il Dna in punti specifici, eliminando (o sostituendo) le sequenze dannose del genoma bersaglio. Ad oggi, la ricerca nell’ambito dell’editing genomico spazia dalle malattie genetiche, in particolar modo quelle rare (come la distrofia muscolare di Duchenne, la beta-talassemia e la fibrosi cistica), ai tumori, passando per le malattie neurologiche (Alzheimer e Parkinson), fino alle malattie infettive (Hiv) o alla cura del diabete.
Ma il metodo Crispr-Cas9 (alle cui migliorie e sviluppi sta contribuendo anche la ricerca italiana), diffusosi in breve tempo nei laboratori di tutto il mondo, viene applicato anche in altri settori della medicina, e non solo. Ad esempio, siccome il sistema riconosce sequenze specifiche di Dna o Rna, ne è stato pensato l’uso per la diagnostica medica, e in particolare per rivelare la presenza di infezioni nei campioni biologici. “Da qui è stato semplice creare un test per identificare il Coronavirus che causa Covid-19, usando proprio Crispr”. Altro ambito di intervento è quello che riguarda la creazione di alimenti, ad esempio la produzione di grano tollerabile dai celiaci (disattivando tutti i geni che portano alla produzione di glutine), oppure la produzione di golden rice, il riso Ogm fortificato per produrre beta-carotene, precursore della vitamina A di cui molte diete sono deficienti. Ma esistono anche altre applicazioni, volte a migliorare la sostenibilità ambientale: Craig Venter, pioniere della biologia sintetica per scopi biotecnologici, ha inattivato i geni presenti in uno specifico tipo di alghe per produrre biodiesel.
Ma non tutti vedono nell’editing genomico solo una nuova frontiera dello sviluppo. Oltre alle domande sui rischi – come il pericolo che il taglio introdotto venga riparato in maniera scorretta, determinando l’introduzione di nuove mutazioni (possibilità plausibile seppur rara) – sorgono questioni di natura etica. Secondo Chiara Tonelli (professoressa di genetica all’Università di Milano e presidente del comitato scientifico della Fondazione Umberto Veronesi), prima di approcciarsi a simile tecniche bisogna porsi alcuni interrogativi: quali geni andiamo a modificare? E per quale ragione ci si appresta a farlo? “Un conto è se si agisce per prevenire l’insorgenza di una malattia, un altro è se si vogliono modificare le caratteristiche fenotipiche di un individuo o se si intende potenziare una funzione biologica. La riflessione su dove mettere i limiti è delicata e deve essere il prodotto di un dibattito aperto e costruttivo condotto tra la comunità scientifica e la società”.
Anche la stessa Jennifer A. Doudna, una delle due scienziate vincitrice del Nobel, è convinta che sia importante stabilire confini chiari: “si possono modificare i geni degli individui, ma non in modo che diventino modifiche destinate a essere ereditate dai loro discendenti”.
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di Flavio Natale
Responsabilità editoriale di ASviS
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