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Responsabilità editoriale di ASviS
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di Donato Speroni
Un giorno l’Economist scrisse che per certi ambientalisti menzionare l’adattamento all’aumento delle temperature was like farting at the dinner table: insomma, un comportamento molto sconveniente. Il senso era chiaro: tutto l’impegno doveva essere messo sulla mitigation, cioè sullo sforzo per ridurre le emissioni, mentre parlare di adaptation, cioè degli interventi necessari per affrontare l’inevitabile aumento delle temperature, era ammettere di aver perso la guerra. Insomma, shame on you, vergognatevi per esservi già arresi.
Da quell’articolo della rivista inglese, scritto nel novembre 2010 proprio per avvertire che “l’azione globale non sarà comunque sufficiente per fermare il cambiamento climatico” sono passati quasi dodici anni. Oggi, un po’ per l’insufficienza delle misure messe in campo finora, un po’ perché conosciamo meglio la dinamica dei fenomeni, sappiamo che una certa misura di riscaldamento comunque è inevitabile; tutto l’impegno è per contenerlo tra un grado e mezzo e due gradi, senza arrivare ai tre gradi e oltre ipotizzati a fine secolo con conseguenze disastrose. Quindi l’adaptation in tutti gli Stati è diventata parte integrante delle politiche pubbliche. Anzi, un recente rapporto dell’Ipcc ci dice che non lo si affronta con sufficiente impegno.
Il lavoro di scouting che facciamo per Futuranetwork.eu, il sito dell’ASviS e di altri centri di ricerca creato a suo tempo da Enrico Giovannini per esplorare gli scenari anche oltre il 2030 e promuovere un dibattuto informato, mi porta spesso a imbattermi in notizie che mi inducono a interrogarmi se diamo la giusta rilevanza a quello che nel frattempo avviene attorno a noi, in particolare all’evoluzione tecnologica. Non appartengo alla schiera dei “tecnottimisti”, quelli che tendono a mettere sotto il tappeto i problemi della sostenibilità nella convinzione che comunque il progresso cancellerà tutti i nostri affanni. Ma a volte mi chiedo se non ci fossilizziamo in battaglie su schemi che il tempo sta superando.
Prendiamo per esempio la questione del nucleare. Per molti, basta la parola per provocare reazioni irate, invettive, condanne per il tentativo di tradire la volontà degli italiani espressa in due referendum. Poi però si scopre che l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio De Scalzi, in missione negli Stati Uniti, ha visitato lo stabilimento alle porte di Boston della Commonwealth fusion systems, un società nella quale l’Eni ha la maggioranza assoluta (ma all’azionariato partecipano anche Bill Gates e Jeff Bezos), che si propone di mettere a punto un primo reattore nucleare a fusione entro il 2030, anticipando processi che si prevedeva fossero operativi nella seconda metà del secolo. Come racconta l’articolo su Futuranetwork, la prospettiva di riprodurre presto “l’energia delle stelle” (la fusione nucleare è il sistema che consente al sole di mandarci luce e calore) ha provocato reazioni preoccupate soprattutto da parte di Greenpeace. Sono reazioni giustificate? Ai posteri l’ardua sentenza. Ma quello che mi interessa segnalare è un salto tecnologico che sposta sostanzialmente i termini del dibattito.
Il gruppo Eni è spesso accusato di voler prolungare il ruolo del gas come combustibile fossile di transizione verso le rinnovabili; ne ha parlato anche Maria Grazia Midulla nella trasmissione “Alta sostenibilità” del 6 giugno. Ma va anche detto che sperimenta nuove tecnologie. Per esempio, questa settimana, come riferisce Jacopo Giliberto sul Sole 24 Ore, ha firmato un accordo con imprese con elevate emissioni per avviare un progetto di carbon capture che rimetterà l’anidride carbonica in un giacimento esausto nei pressi di Ravenna. È la soluzione giusta, è pericolosa? Non lo sappiamo. Vediamo invece che la notizia, riguardante una innovazione tecnologica immediata e importante, è stata sostanzialmente ignorata, mentre si discute tanto di auto elettrica al 2035 spesso con più ideologia che informazione.
Non sappiamo molto dei meccanismi del progresso umano, rileva Garrison Lovely nella rubrica “Future” della Bbc. Forse le scoperte fondamentali sono già state fatte, come frutti bassi, più facili da cogliere, che pendono dall’albero e adesso dobbiamo ingegnarci per progredire. Per ora non sembra alle viste un nuovo grande salto tecnologico, dopo quello che ha portato i computer nelle case di tutti, ha reso accessibile la cultura del mondo attraverso internet e ha potenziato il nostro corpo attraverso gli smart phone. Però il progresso ci sottopone continuamente nuovi prodotti, nuove idee e nuovi dilemmi. Per esempio, sempre dall’Economist, il dibattito sull’opportunità di individuare il genoma di tutti i bambini fin dalla nascita: una diagnosi precoce per prevenire malattie, ma anche un possibile strumento di discriminazione. Oppure, segnalato anche questo su Futuranetwork, la previsione di produrre computer velocissimi già a fine decennio, nei quali i chip al silicio saranno parzialmente sostituiti da cellule umane, con tutto il dibattito sull’integrazione uomo – macchina che si può ben immaginare. Altri interrogativi ci vengono dalla notizia che un tecnico di Google è stato sospeso dal lavoro per aver rivelato di aver dato vita a una forma di intelligenza artificiale (Ai) “senziente” cioè capace di autocoscienza.
Saremo travolti dall’innovazione tecnologica o riusciremo a dominarla e a volgerla a beneficio di tutta l’umanità? Penso che dobbiamo dedicare attenzione a questo tema e affrontare una serie di interrogativi. Proviamo a elencarne alcuni.
Dove va l’innovazione? Il progresso scientifico e tecnologico non è neutro, è guidato da precisi interessi. Certamente esiste la ricerca pura e la storia della scienza è piena di casi di scoperte casuali, mentre si cercava tutt’altro. La chiamano “serendipità”, trovarsi per caso al posto giusto e fare la cosa giusta al momento giusto, anche senza esserne coscienti. Ma il grande fiume della ricerca si muove nella direzione degli interessi: pubblici, spesso militari come l’americana Darpa che ci ha dato tante ricadute anche positive nella vita civile, o delle imprese private. Un tema legato anche all’informazione: per esempio su Avvenire, il fondatore dell’Istituto Mario Negri Silvio Garattini ha auspicato una informazione indipendente sulla ricerca farmaceutica, “che sia basata su dati scientifici e non su interessi economici, finanziari o ideologici”. Del resto, la ricerca è spesso finanziata con fondi pubblici. Senza tarparne le ali, la richiesta di una maggiore informazione è legittima.
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