Il sindacato dei calciatori si
rifiuta di prendere in considerazione la ripresa degli
allenamenti dei suoi tesserati, supportato dalla posizione dei
medici delle squadre di serie A. Alcuni dei presidenti, invece,
continuano a premere per il ritorno alla preparazione fisica dei
loro 'dipendenti'. A spiegare all'ANSA, al telefono, la
situazione dal punto di vista del diritto è Giampiero Falasca,
avvocato giuslavorista autore tra l'altro di un apprezzato
manuale di diritto del lavoro
"La risposta alla diatriba la si trova nel dpcm del 9 marzo,
dove si dice che gli allenamenti possono continuare, a patto che
avvengano a porte chiuse e siano rispettate tutte le misure di
prevenzione fissate per contenere il contagio. Pertanto, nella
diatriba tra calciatori e società di calcio non si può dire a
priori chi ha ragione e chi no: bisogna andare a vedere, caso
per caso, come la società intende riprendere gli allenamenti.
Per riprendere in sicurezza, ad esempio - prosegue Falasca - si
potrebbe pensare di riorganizzare gli spazi comuni (spogliatoi
docce), evitando ogni tipo di contatto ravvicinato tra gli
atleti, così come si potrebbero evitare tutte quelle forme di
allenamento che presuppongono il contatto fisico. Un ruolo
importante nella gestione del rischio per gli atleti lo svolge
il medico sociale, in quanto deve definire procedure e controllo
idonei a contenere la diffusione del virus. La situazione
ovviamente cambia se c'è un caso di contagio o comunque in
fondato sospetto che qualcuno degli atleti sia stato a contatto
con persone contagiate: in tale ipotesi, l'interruzione degli
allenamenti è un gesto obbligato almeno fino al termine della
quarantena, come hanno fatto, con grande buon senso, Juventus e
Inter, seguite anche da altre squadre.
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