POMPEI (Napoli) - "Io sono nienti che rifiata nienti" dice di sé (in siciliano) Edipo giunto a Colono alla fine dei propri giorni, ospite della pietà del Re di Atene Teseo, esprimendo tutto il nichilismo esistenziale del vecchio Sofocle, che nella sua ultima tragedia ne racconta la vita come una sorta di maledizione assurda, espressione del caos del mondo che acquista un senso e una liberazione solo con la morte. ''Edipo a Colono'' è quindi testo modernissimo che Ruggero Cappuccio ha riscritto in versi (endecasillabi e settenari) oltre venti anni fa e che oggi viene riproposto alla terza rassegna di "Pompei Theatrum Mundi" nell'area degli scavi archeologici con la regia di Rimas Tuminas, che in chiusura dedica lo spettacolo al suo maestro Eimuntas Nekrosius, improvvisamente scomparso alla fine dello scorso anno e che avrebbe dovuto firmarlo lui.
La storia di quest'ultimo pezzo dell'esistenza del figlio di Laio, che uccise suo padre senza averlo mai conosciuto e si unì a Giocasta senza sapere che fosse sua madre, uomo quindi innocente, vera vittima del destino ("io ero l'incatenato, il perno al centro della ruota che gira"), padre e fratello dei suoi figli e figlie, finisce così per essere la storia estrema di un uomo piegato e accecato da quel che ha visto e gli è accaduto, scacciato, vilipeso, maltrattato, cui una profezia ha anticipato che sarebbe morto in quel sobborgo di Atene, dove ancora sarà sino all'ultimo perseguitato dal mal essere della sua esistenza e della sua famiglia, assistito dall'amore e la coscienza che ''non fu lui, non lo volle lui'' delle figlie Antigone e Semele, mentre i figli Eteocle e Polinice si scannano l'un l'altro e il Re di Tebe Creonte cerca, anche ricattandolo, di costringerlo a tornare nella sua città per cercare di riportarvi la pace.
Cappuccio, nel ricordo della Magna Grecia, ha l'intuizione di far esprimere e cantare il coro di Atene in napoletano e soprattutto di rendere più vero, più genuino e vivo il protagonista e le figlie facendole parlare in una lingua che ha forti echi di siciliano, dandogli ritmi, colori e immediatezza espressiva, oltre che riprendendone una certa ricchezza barocca col suo spirito fantastico, di trascendente decadenza e senso di morte. Ed è in questo che il testo avrebbe incontrato l'arte di Nekrosius con il suo anelito al metaforico assoluto e alla caducità di tutto, gioco di simbli astratti che Tuminas riprende anche se con meno esasperazione, ma sempre con una vena di poesia e impatto emotivo legato a situazioni, invenzioni e grande fisicità. Tranne il vecchio Edipo, anima in pena umanissima col ventaglio delle sue apparizioni e sentimenti, con le sue illuminazioni e smarrimenti confortati dalle figlie, tutti gli altri vivono il loro dramma in una estrema tensione e azione del corpo, Antigone in testa che rende plastica e intensa Marina Sorrenti dai muscoli del viso alla torsione dei piedi nudi. Così il Teseo di Davide Paciolla e il Creonte di Fulvio Cauteruccio che hanno il culmine in un duello a distanza tutto gesti duri come colpi di spada.
I costumi, poveri essenziali, arcaici e quotidiani come le parole in dialetto del testo, di Adomas Jacovskis che firma anche la scena, deserto emblematico, tranne lo scheletro sghembo di una torre forse allusione al passato possente di Edipo Re, che ha ora il momento più forte in quella che è quasi una visione nel suo essere oramai cieco, nel ricordo straziato e tenero della morte della doppiamente, tragicamente amata madre e sposa suicida, culmine della grande interpretazione ricca di umana verità e pietà di Claudio Di Palma, che finisce morto coperto dalle scarpe di tutti, segno di un esistenziale e ininterrotto, vano andare, personalmente applauditissimo alla fine, con tutti gli altri.
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