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The mole agent, diventare detective a 80 anni

Cinema

The mole agent, diventare detective a 80 anni

Documentario cileno in gara per gli Oscar. Usa faranno remake

ROMA, 11 aprile 2021, 14:36

Francesca Pierleoni

ANSACheck

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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Un annuncio sul giornale nel quale si richiedeva un ultra ottantenne pieno di iniziativa, autosufficiente, abile con la tecnologia, discreto, pronto a compiere un'investigazione che avrebbe potuto tenerlo lontano da casa per tre mesi. E' l'inserzione che ha dato il via a The mole agent (El agente Topo), il film non fiction cileno di Maite Alberdi, in gara agli Oscar fra i documentari. "Marcela ed io stavamo guardando la diretta dell'annuncio delle candidature degli Oscar e quando abbiamo visto che eravamo nominate, ci siamo abbracciate e siamo scoppiate a piangere... poi a ridere" spiega la regista, in un incontro in streaming organizzato dall'American Cinemateque del quale è stata protagonista con la produttrice del film Marcela Santibanez. Il documentario che ha avuto la sua première a gennaio 2020 al Sundance Film Festival, è un viaggio avvincente ed emotivo, divertente, coinvolgente e sorprendente, nell'indagine compiuta in una casa di riposo, quattro anni fa, dall'allora 83enne Sergio Chamy, pensionato da poco vedovo 'reclutato' dall'investigatore Romulo Aitken. A ingaggiare il detective era stata la figlia di una delle degenti della struttura, per scoprire se la madre fosse trattata bene. Sergio, che per svolgere il compito entra nella casa di riposo come nuovo ospite, è tanto goffo come detective (fa i suoi rapporti al telefono con il vivavoce, fatica a fare foto e video) quanto sensibile e attento nell'ascoltare il nutritissimo gruppo di compagne di degenza (gli ospiti sono 40 donne e 4 uomini), molte delle quali si infatuano del 'nuovo arrivato'. Un racconto reale che si presta anche a remake di fiction: "Ci sono arrivate varie offerte - rivela la regista - e stiamo chiudendo su questo un primo accordo con gli Stati Uniti". A dare il via il progetto è stata "l'idea di fare un documentario con toni di noir legato al mondo degli investigatori - aggiunge -. Abbiamo cercato vari contatti finché Romulo, ci ha aperto il suo ufficio ed ha accettato che lavorassi come sua assistente per qualche mese. Ho capito che i detective sono come i documentaristi. Aspettano molto tempo finché non hanno la prova, o l'immagine, la testimonianza che gli serve. Ed è lo stesso per noi, passiamo tanti giorni ad aspettare finché non 'catturiamo' ciò che succede. Quando è arrivato il caso della casa di riposo ed ho conosciuto Sergio, ho capito che era la storia da seguire". Maite Alberdi ha sempre amato immergersi "in micromondi come questo, perché consentono di conoscere esperienze alle quali normalmente non abbiamo accesso - spiega la cineasta, classe 1982 -. Ci permettono di comprendere meglio i grandi temi della società". Ad esempio "avevo letto che il più alto numero di suicidi in Cile è nella fascia di persone tra gli 80 e i 90 anni, a causa della solitudine. Un tema che qui assume dei volti, vedendo quanto può essere estesa quella solitudine". Gli anziani che vediamo nel documentario (girato molto prima dell'emergenza coronavirus, ndr), "vivevano già di fatto isolati nella solitudine , come in un lockdown simbolico". Con la pandemia " molti fuori si sono resi conto di quanto fosse profonda la separazione dalle persone in queste strutture. Il film ha sempre avuto dei temi che considero universali ma ora sicuramente risulta ancora più attuale". A Los Angeles, per gli Oscar, arriverà anche Sergio, oggi 87enne, di origini siriane, che nella vita è stato proprietario di una piccola fabbrica di guanti e commerciante: "Si sta preparando per il red carpet, ha appena fatto il passaporto. Prima non aveva mai preso l'aereo per paura. Ci ha detto 'Questo sarà il mio primo viaggio in aereo e la mia ultima avventura".

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