Sulla scena di un crimine non ci sono soltanto impronte digitali e Dna ad incastrare il colpevole: adesso gli investigatori forensi hanno un’ulteriore arma nelle ‘impronte microbiche’, tracce lasciate dai batteri che vivono sulla pelle e che sono specifiche per ogni persona, in grado dunque di far risalire ad un particolare individuo. Lo indica lo studio pubblicato sulla rivista Genes, guidato dall’Università britannica del Lancashire Centrale e dall’Università del Piemonte Orientale. I ricercatori hanno dimostrato che queste impronte microbiche, lasciate in particolare sui vestiti, si possono conservare per molto tempo, anche mesi, e permettono dunque di compiere un significativo passo avanti nell’identificazione delle persone coinvolte in un crimine.
La microbiologia forense, la disciplina scientifica che si concentra sulle applicazioni della microbiologia alle indagini criminali, ha preso piede nei primi anni 2000 soprattutto in relazione al bioterrorismo. Oggi, però, è diventata fondamentale in molti modi: permette di identificare le persone dopo la morte, capire com'era il loro stato di salute, determinare come e perché sono morte, quanto tempo è passato dal decesso e il luogo di provenienza. Ora, i ricercatori guidati da Noemi Procopio dell’Ateneo britannico e Giulia Sguazzi di quello italiano si sono invece concentrati nell’identificazione di un individuo a partire dagli abiti, oggetti che si trovano spesso sulla scena di un crimine.
Grazie a magliette indossate da volontari per 24 ore, gli autori dello studio hanno potuto dimostrare che sugli indumenti vengono trasferiti microrganismi ben riconoscibili e unici per ciascun individuo, una vera e propria ‘firma’. Queste tracce, inoltre, permettono di distinguere tra capi indossati e non anche dopo 180 giorni, e possono trasferirsi per contatto ad altri oggetti. I vestiti si confermano, così, prove chiave per il processo investigativo, fornendo informazioni importanti come genere, occupazione, reddito, status sociale e spesso anche indizi sulla morte.
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