Individuato nel cervello umano il circuito nervoso che permette di localizzare le sorgenti da cui provengono i suoni: è più semplice e diffuso di quanto ipotizzato finora ed è anche in grado di distinguere le parole dai rumori di fondo. La scoperta, pubblicata sulla rivista Current Biology dai ricercatori della Macquarie University in Australia, potrebbe aprire le porte a una nuova generazione di dispositivi acustici più efficienti, da quelli degli smartphone fino alle protesi per chi soffre di problemi di udito.
Questi apparecchi sono stati finora progettati sulla base di una teoria vecchia di 75 anni, secondo la quale il nostro cervello riuscirebbe a localizzare le sorgenti sonore sulla base del ritardo temporale con cui i suoni raggiungono ciascun orecchio. La teoria nasce dal presupposto che esista una rete neurale dedicata esclusivamente alla localizzazione dei suoni, con la posizione nello spazio rappresentata da un neurone ad hoc.
I ricercatori australiani guidati da David McAlpine hanno impiegato 25 anni per dimostrare, in una specie animale dopo l'altra, che il cervello usa in realtà una rete neurale più diffusa, con neuroni in entrambi gli emisferi che eseguono questa funzione insieme ad altre. Grazie a questo nuovo studio hanno visto che lo stesso vale anche per l'uomo: lo hanno dimostrato attraverso uno specifico test dell’udito e l'uso dell'imaging cerebrale avanzato, con cui hanno potuto fare dei confronti con il cervello di altri mammiferi, compresi i macachi.
"Siamo stati in grado di dimostrare che i gerbilli sono come porcellini d’India, i porcellini d’India sono come i macachi e i macachi sono come gli umani in questo senso", afferma McAlpine. "Una forma diffusa ed efficiente di circuiti neurali svolge questa funzione".
I ricercatori hanno anche dimostrato che lo stesso circuito cerebrale è in grado di distinguere il parlato dai rumori di fondo: una scoperta che potrebbe migliorare la progettazione di apparecchi acustici e assistenti vocali, che spesso faticano a riconoscere quando una persona parla per il cosiddetto 'effetto cocktail party', dovuto all'ambiente rumoroso. Per assolvere a questo compito, spiegano gli studiosi, non c'è bisogno di ricorrere a complessi modelli linguistici di grandi dimensioni, ma è sufficiente un approccio più semplice.
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