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Slow Food, no alla carne coltivata ma diminuirne il consumo

Nappini: 'L'approccio industriale intensivo è insostenibile'

Redazione ANSA TORINO

"Non c'è alternativa alla riduzione del consumo di carne", perché passare a quella coltivata in laboratorio è come "passare dalla padella alla brace". Lo sostiene Slow Food Italia, che ha appena diffuso un documento sulla propria posizione in merito, in cui affronta anche le modalità della produzione industriale, le conseguenze del consumo di carne e le modalità di allevamento e agricoltura sostenibili.

Il no viene detto perché il cibo è cultura, oltre che carburante per 'organismo, perché la produzione di carne in laboratorio richiede grandi quantità di energia, oltre al fatto che molti aspetti della produzione stessa sono sconosciuti, dal momento che le aziende si nascondono dietro al segreto industriale. I principali soggetti che puntano ai laboratori sono inoltre gli stessi che dominano la filiera della carne, con le stesse logiche di guadagno e monopolio.

"Soddisfare l'attuale domanda globale di carne - Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia - ha richiesto uno stravolgimento dei secolari metodi di allevamento, dando vita al cosiddetto approccio industriale o intensivo. Un metodo che ha sì assicurato carne (quasi) per tutti, ma a condizioni ingiuste, inaccettabili e insostenibili. Secondo Slow Food, per frenare questa deriva basterebbe ridurre il consumo di carne nei Paesi del nord del mondo, dando concretezza alla auspicata transizione proteica, piuttosto che promuovere la carne coltivata". 


Slow Food, nel documento pubblicato in cui spiega che la carne coltivata in laboratorio non è la soluzione ai danni della produzione industriale di carne, inizia riferendo che "dal 1960 a oggi la produzione di carne è aumentata di cinque volte e, secondo la Fao, potrebbe raddoppiare entro il 2050. Le conseguenze - sostiene Slow Food - sono gravi per tutti: per la nostra salute, per il clima, per il nostro pianeta, per il benessere degli animali".

L'associazione percorre e analizza le conseguenze di questo sull'ambiente e sulle persone. I dati riportati sulla produzione parlano di 45 milioni di tonnellate nel 1950, 30 milioni nel 2018 e 500 milioni nel 2050. "Questa impennata della produzione - spiega l'associazione - è legata a una profonda trasformazione dell'allevamento, che si è specializzato, slegato dalla terra e trasformato in industria. A sua volta, l'allevamento industriale è connesso a doppio filo alla diffusione delle monocolture (innanzi tutto soia, mais) e di pratiche agricole che deteriorano la fertilità del suolo, compattandolo e inquinandolo con fertilizzanti chimici e pesticidi. La maggior parte della soia e del mais coltivati nel mondo sono destinati alla zootecnia e sono Ogm. "Tutto il sistema - dalla produzione di semi a quella di fertilizzanti chimici, dei pesticidi, delle pompe idrauliche, dalla genetica animale alla produzione di mangimi, dai prodotti farmaceutici all'allevamento, alla macellazione e alla distribuzione e perfino alle compagnie nautiche che trasportano mangimi e farine attraverso il globo - è controllato - precisa Sloow Food - da una manciata di multinazionali, che continuano ad accrescere il loro raggio di azione grazie ad acquisizioni e fusioni".

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