Nulla di più errato perché è impossibile sfuggire alle emozioni che suscita. La protagonista Viviane ha infatti deciso dopo tre anni di chiedere al marito il divorzio e per questo vuole andare davanti al giudice. In Israele però la rottura del matrimonio (anche se si tratta di un atto da codice civile) sottostà alla legge religiosa, l'unico giudice inappellabile è il tribunale rabbinico e c'è bisogno dell'assenso del maschio, senza il quale non si può procedere. Nel caso di Viviane, suo marito Elisha si oppone e trova connivenza nel'ambiguità del rabbino Shimon (Sasson Gabai). Sicché la battaglia legale di Viviane diventa la pietra dello scandalo per una società che si vuole moderna e civile, ma che poi rivela il suo lato confessionale e maschilista proprio negli atti civili che regolano la convivenza. Un fatto privato diviene uno scandalo pubblico. La battaglia tra maschio e femmina si consuma nell'aula di tribunale in cui si affrontano due idee di civiltà ormai inconciliabili. Il coraggio di Viviane, la sua limpidezza e sofferenza sono un monito per le donne di tutto il mondo e questo afflato universale voluto dai due autori rende "Viviane" un film ricco di emozioni e di umana contradditorietà, senza vincitori né vinti. In questo duello rifulge la bellezza intensa di Ronit Elkabetz, una protagonista che è oggi la migliore ambasciatrice della moderna Israele, e spicca la modernità cinematografica di due autori che da sempre fanno della macchina da presa non un osservatore neutrale, ma un testimone che di volta in volta prende le parti dei personaggi e trascina lo spettatore nello "spazio chiuso" del tribunale, tra amici, familiari, giudici. Un tour de force visivo ed emotivo che rende "Viviane" davvero un grande film. (ANSAmed).
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