(ANSA) - ROMA, 26 NOV - Il primo scudetto del Napoli, una
squadra di gregari e talenti, un fuoriclasse assoluto, un
tecnico all'antitesi del suo n.10. Fra i tanti che hanno avuto
un rapporto contrastato e hanno voluto bene a Diego Maradona, a
soffrire piu' di tutti è certamente Ottavio Bianchi. "Mi è
davvero difficile parlare di Diego", dice con la voce rotta l'ex
allenatore di quell'impresa tricolore. Fu suo allenatore al
Napoli del primo scudetto nel 1987 e oggi ne parla quasi come di
un figlio perso. Non si possono immaginare due persone diverse
come loro due: se il tecnico era riservato, quasi silenzioso,
metodico, ordinato e disciplinato, il campione ne era l'esatto
contrario: chiacchierone, disordinato, indisciplinato, allegro e
disincantato, esuberante oltre ogni limite. Tanto che la
leggenda tramanda che El Pibe chiamasse ironicamente il tecnico
'Settimio', tranne poi proporre alla squadra di dedicargli la
vittoria quando era assente dalla panchina. I rapporti fra i due
"erano esclusivamente legati al campo" ricorda l'ex tecnico
bresciano, oggi 77enne, entrato anche lui nella storia del
Napoli prima come giocatore e poi come allenatore. "Con Maradona
avevamo un rapporto molto bello sul campo, ma fuori non avevo la
possibilità di intervenire, non mi potevo permettere. Qualche
volta - racconta Bianchi al telefono con l'ANSA - quando eravamo
da soli, ci confrontavamo, parlavamo più apertamente, lui mi
diceva qualcosa della sua vita personale, su questo o su
quell'altro, allora io mi permettevo di dirgli ciò che pensavo,
gli dicevo forse questo è meglio o questo no". Bianchi conserva
"il rammarico per non essere riuscito a fare qualcosa di più"
per Maradona sul piano extracalcistico, "ho provato a fargli
cambiare rotta" dice, ma ha anche la consapevolezza del suo
limite: "non ho un modo per entrare nella testa delle persone, e
poi non era mio compito. Forse non sono stato all'altezza, ma
comunque sarei stato una goccia nell'oceano e non potevo sortire
nulla di buono", perchè fuori dal campo la vita di Maradona era
imprendibile. "Quando tentavo di rimproverarlo, mi ascoltava con
gli occhi bassi. Ricordo che gli dissi che rischiava di finire
male, lui mi guardava e poi mi diceva che la sua vita la voleva
vivere con l'acceleratore al massimo. Aveva giustamente la sua
personalità, la esprimeva a modo suo, e poi -aggiunge Bianchi-
povero ragazzo viveva costantemente sotto pressione. In tutto il
mondo, la vita sotto pressione che ha avuto lui non credo abbia
avuto eguali non solo nel campo sportivo, ma anche in quello
politico e economico. E mi dispiaceva". Sotto accusa gli
eccessi, le frequentazioni pericolose, la troppa disponibilità:
"Maradona dava il massimo in campo, ma anche fuori, con chiunque
avesse a che fare con lui, anche con le persone non positive.
Diego era grande nelle cose semplici, molto disponibile con i
giovani e i suoi compagni". Oggi, ferito profondamente da questa
morte inaspettata, in Bianchi affiora anche la domanda: "potevo
fare qualcosa di più?" e aggiunge "mi viene in mente un detto
delle mie parti, per i padri è molto più facile dire dei sì ai
figli. Forse se gli avessimo detto qualche no, le cose sarebbero
andate in modo diverso, e non avrebbe avuto tanti problemi, ma è
una mia idea, dettata dall'amarezza del momento. Quando
succedono certe cose si va sempre a vedere cosa si poteva fare.
Ma era difficile fuori dal campo dire a Diego cosa doveva fare e
cosa no, non potevo permettermi di dargli degli indirizzi". Oggi
resta il ricordo affettuoso di "un ragazzo umile" nonostante
fosse Maradona, "un bravissimo ragazzo. Quando andava fuori era
talmente osannato, pressato, nessuno poteva essere come lui. Ma
al nostro interno era un bravissimo ragazzo. Lo ricorderò così".
(ANSA).