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A bordo della Sea Watch

Redazione Ansa

Alle tre del pomeriggio, la Sea Watch è un pezzo di ferro arroventato lungo cinquanta metri fermo in mezzo ad un mare immobile e trasparente. Joseph, Ibrahim e gli altri 40 disperati, ultime vittime di uno scontro politico giocato a Roma e a Bruxelles sempre e solo sulla loro pelle, sono stesi per terra tra coperte lerce e giubbotti salvagente usati come cuscini. Sotto il tendone che tenta di proteggerli dal caldo c'è una scacchiera aperta e una mappa di quell'Europa che non li vuole. Carola Rackete, la comandante che ha sfidato Salvini, li guarda un'ultima volta e poi parla tutto d'un fiato. "Abbiamo provato tutto, abbiamo chiesto ufficialmente un porto sicuro all'Italia, lo abbiamo fatto tre volte. Ma abbiamo chiesto anche all'Olanda. E alla Francia. Nessuno ci ha risposto. Ora basta, queste persone sono disperate, dobbiamo entrare in porto". L'odissea però non è finita. Non ancora, almeno. La nave è ferma a meno di mezzo miglio dall'isola, dalla plancia di comando si vedono le barche piene di turisti in costume che rientrano in porto. "Guardali, sono felici. Perché questi uomini e queste donne non hanno diritto di esserlo anche loro?" dice Soeren Moje, un ingegnere navale tedesco di 32 anni che da due mesi non mette piede a terra. "Ma questo non è un problema - sorride - sono un marinaio. E per un marinaio è molto chiaro quello che bisogna fare in mare: salvare le persone".

TESTI E FOTO DI MATTEO GUIDELLI

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