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Addio a Mauro Bellugi, eroe del calcio romantico anni '70

Dopo essere stato contagiato dal Covid, era stato colpito da una trombosi. Gli erano state amputate entrambe le gambe

Redazione Ansa

Non ha mai smesso di lottare Mauro Bellugi, anche fuori dal campo. Nemmeno l'amputazione di entrambe le gambe, per le complicazioni che il Covid ha aggiunto ad altre patologie, lo aveva fermato dal guardare avanti con la solita ironia. "Il dottore che mi ha operato era interista, mi ha tagliato la gamba del gol al Borussia Moenchengladbach e lo volevo denunciare", scherzava. Come alle maglie degli avversari, si è aggrappato alla vita fino all'ultimo, arrendendosi oggi, pochi giorni dopo aver compiuto 71 anni e spegnendosi all'ospedale Niguarda di Milano. "Un combattente in campo e nella vita", come lo ha ricordato l'Inter, che domani giocherà con il lutto al braccio nel derby.

Un giocatore ma soprattutto un personaggio antico e sempre attuale, simbolo di quel calcio romantico e con uno sguardo al futuro degli anni '70. Stopper: basta il nome a definire un calcio che non c'e' più, dove un giocatore in campo poteva esser deputato a un solo compito, fermare il centravanti avversario. Lui quel ruolo lo ricoprì con modernità e con lo stesso coraggio da leone mostrato fino all'ultimo; capace, a 20 anni, di ereditare all'Inter la maglia numero 2 di un certo Burgnich (spostatosi nel frattempo al centro della difesa) senza sentirne il peso, anzi diventando uno dei giocatori centrali in una delle ultime fiammate della Grande Inter, quella che guidata da Invernizzi nel 1970/71 rimontò 11 punti al Milan per vincere l'11/o scudetto. La sua interpretazione quasi attuale del ruolo - buona tecnica e capacità di giocare il pallone - faceva ogni tanto ammattire i compagni, senza dimenticare l'anticipo e la marcatura sempre fondamentali. Come dimostrato anche nel suo unico gol in carriera, contro il Borussia Moenchengladbach in Coppa dei Campioni nel 1971: stop di petto e destro al volo sotto la traversa, un gol decisamente da ricordare.

 

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Il meglio, dal punto di vista calcistico, probabilmente lo fece vedere al Bologna, dopo un addio anche polemico all'Inter nell'estate del 1974. Sotto le Due Torri, Bellugi fece il salto di qualità che gli permise anche di conquistare la maglia da titolare in Nazionale, dopo l'esordio nel 1972 e le zero presenze ai Mondiali 1974, ricevendo tra l'altro anche il titolo di "Leone di Varsavia" per aver annullato il bomber polacco Szamarch in una gara delle qualificazioni europee nel 1975. Fu così protagonista con l'Italia ai Mondiali 1978, chiudendo nel 1980 la sua esperienza in azzurro con 32 presenze. Un infortunio con il Bologna limitò tuttavia le sue ultime stagioni, chiudendo la carriera prima al Napoli e poi alla Pistoiese, dove rimase come allenatore in seconda per un breve periodo. Da buon toscano esuberante, sempre pronto alla battuta, la sua seconda vita dopo il ritiro divenne quella di opinionista tv nelle reti locale lombarde, soprattutto su 7 Gold. Non solo battute, però, perché Bellugi è stato soprattutto un uomo di campo, fino all'ultimo. I problemi legati all'anemia mediterranea, complicati dal Covid, lo avevano costretto lo scorso novembre al ricovero, obbligando poi i medici ad amputargli entrambe le gambe per salvarlo. E fu lui stesso a raccontarlo, sempre con la vena di ironia che lo ha contraddistinto. In ospedale Bellugi aveva cominciato la riabilitazione, aspettando solo il momento di uscire per andare per provare le protesi alle gambe, pagate da Massimo Moratti: "Bellugi è uno di noi", aveva detto l'ex patron dell'Inter, il cui padre aveva regalato al difensore una villa a Stintino al momento della firma con i nerazzurri nel 1969. La moglie Loredana e della figlia Giada lo avevano convinto a non mollare e gli hanno dato forza, fino a incontrare un ultimo avversario che Bellugi, stavolta, non è riuscito a fermare.

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