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Lauree a rischio nei campus, s'infiamma pure Parigi

Le proteste in Usa non si fermano e sbarcano anche a Sciences Po. La presidente della Columbia fra due fuochi

Redazione Ansa

     L'ombra delle proteste pro-Gaza nei campus americani si allunga sulle lauree: la University of Southern California, che ieri ha clamorosamente cancellato la cerimonia del 10 maggio per "motivi di sicurezza", potrebbe essere la prima di una serie. In altri atenei, tra cui Columbia a New York, da dove la scorsa settimana è partita la protesta, si teme un effetto domino che priverebbe del rito di passaggio culminante della carriera scolastica ragazzi che già hanno cominciato il college nel lockdown da Covid.

    Finora solo l'ateneo di Los Angeles, già al centro di polemiche per aver revocato l'invito a parlare alle lauree alla 'prima della classe' Asna Tabassun (una studentessa apertamente pro-palestinese), ha ufficializzato che il 'commencement', come si chiama in inglese la cerimonia della consegna dei diplomi, quest'anno non si farà a causa delle proteste. Ovunque però c'è tensione: ad Atlanta, dove ieri la polizia ha usato i lacrimogeni per disperdere una protesta di studenti di Emory, l'invito al presidente Joe Biden a parlare alle lauree di Morehouse, storico college per afro-americani dove studiò Martin Luther King, fa discutere da giorni studenti e professori, molti dei quali minacciano di disertare l'evento del 19 maggio per non doversi sedere sullo stesso palco con il capo della Casa Bianca criticato per le posizioni sul conflitto tra Hamas e Israele.

    Oggi sulle proteste nei campus americani è tornato il segretario di Stato Antony Blinken: "Sono parte della nostra democrazia e riflettono la forza del nostro Paese", ha detto durante una sosta a Pechino dove le manifestazioni di dissenso non sono particolarmente tollerate.

   La presidente della Columbia, Minouche Shafik, si trova in una situazione ogni volta più delicata, a causa del modo in cui la sua amministrazione sta affrontando la protesta studentesca. L'università ha fatto marcia indietro rispetto alla scadenza fissata alla mezzanotte scorsa (le 04:00 GMT di venerdì in Italia) perché i manifestanti smantellino un accampamento filo-palestinese di protesta, mentre altri campus universitari negli Stati Uniti si battono per impedire che le occupazioni prendano piede.  "I colloqui - ha detto Shafik - hanno mostrato progressi e stanno continuando come previsto; noi abbiamo le nostre richieste, gli studenti hanno le loro". 

     E mentre il Senato accademico della Columbia valuta un voto su una risoluzione di disapprovazione dell'operato della presidente, i manifestanti che occupano il campus stanno negoziando una dichiarazione ufficiale di mea culpa in cui Shafik ammetta di aver sbagliato nel chiamare la polizia giovedì scorso per far sgomberare la tendopoli. 

    Ma sull'altro fronte il presidente dello Yad Vashem, Dani Dayan, ha scritto una dura lettera a Shafik, nella quale le chiede: "la Columbia sarà ricordata come Heidelberg? In larga misura, dipende da lei, signora", chiedendole di prendere posizione in merito alle proteste pro-palestinesi in corso nell'ateneo americano.  "Quando i docenti, il personale e gli studenti della Columbia chiedono l'eliminazione dello Stato di Israele e l'abolizione del sionismo, dovete prendere una posizione. Non una posizione politica, ma una posizione morale", ha aggiunto Dayan.

   "Quando diventa chiaro che l'abolizione dell'esistenza dello Stato ebraico è un'ideologia diffusa nella Columbia, il presidente dell'istituzione non può rimanere in silenzio. Il silenzio verrà inevitabilmente interpretato come tolleranza o, peggio ancora, come consenso", ha concluso il presidente del museo dell'Olocausto, che nella missiva usa il paragone con l'università tedesca di Heidelberg, simbolo della nazificazione e della persecuzione degli studenti e dei docenti ebrei alla fine degli anni '30. 

    Da Columbia intanto la protesta dilaga anche fuori dagli Usa.

    A Parigi decine di studenti pro-Palestina hanno occupato la storica sede di Sciences Po a Parigi, mentre in Gran Bretagna manifestazioni si sono svolte a Londra, fuori dall'University College London, e Warwick. Tendopoli pro-Gaza sono arrivate perfino in Australia, alle università di Sydney e di Melbourne. A Columbia oggi oltre cento studenti israeliani hanno scritto alle autorità del campus chiedendo protezione da "un ambiente poco sicuro" in cui "temono per la vita". Questo mentre il senato accademico e i leader studenteschi negoziano dichiarazioni con reciproche ammissioni di colpa, come quella di Khymani James, uno dei capi della protesta, che si è scusato su X per aver detto in video su Instagram a gennaio che "i sionisti non meritano di vivere". Sembra peraltro salva, per il momento, la poltrona della presidente Minouche Shafik, di cui lo speaker della Camera Mike Johnson due giorni fa aveva chiesto le dimissioni per non aver fatto abbastanza a difesa degli studenti ebrei. Anche il presidente dello Yad Vashem le ha chiesto però di prendere posizione: "La Columbia sarà ricordata come Heidelberg? In larga misura, dipende da lei, signora", le ha scritto Dani Dayan evocando l'università tedesca simbolo della nazificazione e della persecuzione degli studenti e dei docenti ebrei alla fine degli anni '30. 
   

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