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Kiev, la guerra negli occhi dei soldati feriti - il reportage

All'ospedale militare: 'Che mi hanno fatto? Non vorreste saperlo'

Redazione Ansa

La gamba destra è rigida e gonfia sotto la mimetica, la mano tremante tiene una sigaretta che il giovane soldato non riesce nemmeno a fumare. Seduto su una sedia di plastica, con le stampelle appoggiate allo schienale, è appena arrivato al Main Military Clinical Hospital di Kiev, chissà da quale fronte di guerra in Ucraina. Guarda la moglie quasi implorando, lei gli appoggia una mano sulla spalla e ricambia lo sguardo con tenerezza, ma sembra non avere le parole per confortarlo. A parlare per lui, invece, sono i suoi occhi celesti, grandi ma vuoti, lucidi, sgranati, disperati. "Scusate, non ho voglia di parlare", dice il soldato, quasi mortificato, indicando più volte la gamba ferita. "E' meglio per voi. Non vorreste sapere quello che mi hanno fatto", si giustifica, senza più riuscire a trattenere le lacrime

L'ingresso dell'ospedale, difeso da uomini armati e cavalli di Frisia, è un via vai di persone, militari di tutti i gradi e tutte le età, medici, volontari che sacco in spalla aspettano di essere arruolati, mogli con buste di cibo e vestiti per i mariti feriti, lo sguardo fisso alla porta in attesa dell'autorizzazione per entrare. All'esterno un'altra ambulanza arriva senza sirene. Dal 24 febbraio i reparti più ingolfati sono chirurgia e traumatologia. "Non facciamo altro che amputare arti, disinfettare ferite piene di pus, rimuovere schegge di metallo dai corpi", spiega all'ANSA Maksym, infermiere in camice verde in una pausa. "L'ultimo caso che ho curato? Abbiamo tagliato la gamba a un soldato di 22 anni", aggiunge. Poco più che coetaneo di quel ragazzo ferito, prima della guerra Maksym lavorava in un ospedale pediatrico. "Con i bambini era ancora più difficile", confessa.

Vasyl, detto Gutsul dal nome dell'etnia nei Carpazi, denti d'oro e piccolo di statura, invece è un fiume in piena. Ha ferite alla mano ma gesticola e parla senza sosta nel raccontare la sua di guerra. I primi giorni attorno a Kiev, Irpin, Gostomel, Chernihiv, "è stato un inferno di artiglieria". Poi a Chernobyl, il 29 marzo, "abbiamo visto i russi scappare dalla centrale. Volevamo sparargli ma il comandante non ce lo ha permesso", ricorda rammaricato e vantandosi di aver "ucciso da solo una cinquantina di nemici". Con il ridispiegamento delle truppe di Mosca sul fronte est, ai primi di aprile anche Vasyl viene trasferito nel Donbass. Ed è lì che viene ferito: "Stavamo scavando una trincea. Il mio compagno si era appena allontanato quando è sbucato un tank russo che si è messo a sparare su di noi. Per le esplosioni non riuscivo a sentire più niente, ancora adesso sono un po' sordo.

Per fortuna sono arrivati anche i nostri, altrimenti sarei morto". Trasferito prima in un ospedale a Dnipro, è arrivato a Kiev da una settimana. "Fosse per me tornerei subito al fronte - dice gonfiando il petto, un braccialetto giallo e blu attorno alla fasciatura per la flebo -. I miei compagni combattono sul campo, mentre io sono fermo qui". 

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