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Congo, cobalto e coltan il 'nuovo oro' delle milizie

I due metalli della tecnologia che alimentano i conflitti

Congo, miliziani (ARCHIVIO)

Redazione Ansa

Oltre che di diamanti la Repubblica democratica del Congo, dove hanno trovato la morte l'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, è fra i primi produttori mondiali anche di due metalli che la tecnologia sta rendendo indispensabili e quindi sempre più appetibili come forma di autofinanziamento illegale per le decine di milizie che infestano soprattutto l'est del Paese: il cobalto e il coltan.
    Del primo, il Congo produce oltre il 60% di quello in circolazione nel mondo dove è sempre più ricercato per l'impiego nella costruzione di telefonini e batterie di auto elettriche.
    Il coltan invece è minerale da cui si ottiene il tantalio, metallo raro che - da ingrediente essenziale per la produzione missilistica e nucleare e per il settore aerospaziale - è diventato di recente ambitissimo dai produttori di telefonia mobile.
    Il sottosuolo del Congo è ricco fra l'altro anche di petrolio, oro, argento, uranio, ma è con l'aumento della richiesta mondiale di tantalio che si è fatta più accesa la lotta fra gruppi para-militari e guerriglieri per il controllo dei territori congolesi di estrazione. Un'area particolarmente interessata è proprio la regione del Kivu dove è avvenuto l'attacco di ieri. Ed è da un ventennio che rapporti Onu denunciano come i proventi del commercio semilegale di coltan, il 'nuovo oro', e di altre risorse naturali pregiate abbiano alimentato la guerra civile fatta di vari conflitti regionali che tra il 1996 e il 2003, proprio nell'est del paese dove si trova il Kivu, causò la morte di milioni di persone soprattutto di fame e malattie. Uno sfruttamento del sottosuolo di cui fanno le spese anche un elevato numero di bambini-minatori, spinti o costretti ad esempio ad estrarre in condizioni disumane e dannose per la salute il cobalto utilizzato almeno da una trentina più noti marchi tecnologici e automobilistici, come denunciò a due riprese Amnesty International nel 2015 e 2017.
   

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