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Si vive così, tra il policlinico e la farmacia

Nadia Makorevich: "Pripjat era la città dei bambini e dei fiori, un paradiso"

Redazione Ansa

"Pripjat era la città dei bambini e dei fiori, un paradiso". Nadia Makorevich abitava vicino alla centrale di Cernobyl, in quella che adesso è una città fantasma che attira centinaia di turisti del macabro in cerca di emozioni forti: Pripjat appunto, la cittadina abbandonata dove il tempo sembra essersi fermato. E che fino a 30 anni fa - ricorda Nadia incontrandoci a Kiev - era considerata "la città del futuro".


"Quando avvenne quella maledetta sciagura - racconta - mio figlio Ievgheni faceva la prima elementare, mentre mia figlia Ivanna aveva appena sei mesi". Dell'incidente Nadia ha saputo quasi subito dal marito, che era di turno alla centrale proprio nella notte tra il 25 e il 26 aprile del 1986: "Lui aveva capito che c'era stato un incidente, ma ancora non si sapeva niente di concreto e non era chiara la gravità della situazione. Quando è tornato a casa la mattina, ha detto: 'E' successo qualcosa alla centrale, chiudi le porte, chiudi le finestre, io vado a dormire', e io mi ero un po' arrabbiata perché si avvicinavano le feste di maggio e anche la Pasqua, e lui doveva aiutarmi a sistemare la casa". Nadia all'inizio non si preoccupa più di tanto. Le cose però cambiano poco dopo: "Alle 12 del 26 aprile - ricorda emozionata - vado in un negozio di latte per mia figlia, e noto che i commessi, di solito vestiti di bianco, avevano addosso dei camici blu, e c'era una persona che diceva a tutte le mamme di lavare sempre col sapone le mani e tutto quanto. E per strada c'erano i mezzi che pulivano le vie con la schiuma, tanta schiuma, roba da uscire pazzi". La preoccupazione si trasformò in paura l'indomani mattina, il 27 aprile, quando Nadia e suo marito notarono "qualcosa che assomigliava a un arcobaleno proprio sopra la centrale". L'ordine di evacuazione giunse di lì a qualche ora: "Dopo mezzogiorno dissero alla radio che dovevamo prendere tutti i documenti e tutto il necessario per tre giorni, e alle 15 arrivò un esercito di autobus per evacuare la città".


Nadia e la sua famiglia vengono portati a poche decine di chilometri dalla centrale, nel villaggio di Obukhovici. "Però c'era un problema - ricorda Nadia -: dovevo comprare il latte per mia figlia, neonata, ma in quel piccolo paesino non ce n'era". Così, quella sera stessa tutta la famiglia andò a Kiev in autobus, e l'indomani mattina, dopo aver risolto la questione latte e aver passato la notte nella stazione ferroviaria, partì in treno per Leopoli, dove vivevano le sorelle di Nadia. "I bambini avevano una nausea terribile e vomitavano sempre - ricorda con tristezza -, pensavamo che fosse per il lungo viaggio verso l'Ucraina occidentale e non capivamo ancora che la causa era l'incidente alla centrale. Anch'io cominciavo a stare male, avevo perso la voce ma non avevo mal di gola, non sapevamo quali fossero gli effetti delle radiazioni". Il marito di Nadia dopo un po' di tempo è tornato a lavorare alla centrale di Cernobyl, dove è rimasto fino al 1993, contribuendo anche alla costruzione dei depositi per le scorie radioattive. Adesso Nadia e i suoi familiari hanno problemi di salute, alcuni anche gravi: "Viviamo così, tra policlinica e farmacia", ci dice.


A Pripjat però Nadia è tornata, assieme ai suoi figli. E per ben due volte. "La prima volta, nel 2004, siamo andati anche nella scuola di mio figlio Ievgheni, e abbiamo trovato un registro con l'elenco degli alunni. Lui volevo prenderlo, ma io ho detto di no, perché è radioattivo, e gli ho dato una penna perché firmasse dove c'era il suo nome. Quando siamo tornati, 25 anni dopo la sciagura, quel registro era sempre lì, aperto sulla stessa pagina, e l'unica firma era quella di mio figlio"

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