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Israele: chiude 'Tamar', il caffè cult di Tel Aviv

Luogo storico della sinistra israeliana. Battaglia per salvarlo

Redazione Ansa

Ai suoi tavolini - per lo più di formica - si è seduta gran parte della politica e dell'intelligentzia israeliana di sinistra: un luogo cult a poca distanza da quella che era la sede del 'Davar', il mitico giornale dei 'Lavoratori di Eretz Israel'. Tra poco più di un mese però 'Tamar' - caffè all'angolo tra via 'Shenkin' e via 'Ahad Ha'am' nel cuore della città, ad un passo dallo storico 'Boulevard Rotschild' - chiuderà i battenti. Al suo posto - si dice - potrebbe essere costruito un palazzo.  Se così sarà, scomparirà uno dei posti che hanno fatto la storia di Israele. E non tanto per quello che era servito quanto per chi intorno a quei tavolini si è seduto. A cominciare da Yitzhak Rabin, l'uomo della pace ucciso da un estremista ebreo nel novembre del 1995, il cui viso, riprodotto su quadri, foto, volantini, riempie ancora oggi le pareti interne del locale e le vetrine.

Ma Rabin non è stato l'unico a frequentare il caffè. Dalla sua nascita nel 1941 - in piena guerra e in pieno mandato britannico, con Rommel alle porte intenzionato a ghermire la Palestina se avesse sconfitto gli inglesi ad El Alamein - schiere di politici, intellettuali, artisti, giornalisti, poeti, romanzieri, giornalisti, attori, hanno litigato, fatto la pace e poi di nuovo litigato, sulle sedie di questa sorta di Cafè de Flore parigino trapiantato a Tel Aviv. Dietro il bancone, alle prese con sandwich e dolci, la fondatrice e imperatrice del posto: Sara Stern. Dall'esistenza più 'grande di una vita' - come è stata definita - Sara, oggi novantenne, è un'istituzione della città: per i suoi 85 anni il sindaco Ron Huldai (centrosinistra), un fan del posto, le organizzò una festa in Comune. Ancora oggi, da dietro la cassa o ai tavolini, governa l'andirivieni con fermezza e organizzazione da kibbutz: spesso la si vede prendere un caffè seduta nel dehors del locale mentre intorno a lei capannelli di avventori discutono. "Da 'Tamar' - racconta oggi una signora israeliana di mezza età con casa in Toscana - si parla di tutto: di politica, di arte, di cinema, di vita di ogni giorno e anche, perchè no, di qualche pettegolezzo. Senza 'Tamar' - ammette sconsolata - non sarà più la stessa cosa. Per questo speriamo che alla fine si trovi una soluzione. Non ci rassegniamo".

Ma, a sentire la proprietà del caffè, la sorte appare segnata. ''Ci lascia uno degli ultimi posti dove la gente - ha scritto oggi su Haaretz, Gideon Levi - ancora parla l'un con l'altra, invece di scrivere sul cellulare''. Suona quindi un po' paradossale - ha aggiunto - che per gli addicted di 'Tamar', in attesa di trovare un altro posto, sia stata creata una nuova chat su Whatsapp intitolata 'I profughi di Tamar'. Il loro grido di battaglia, nel tentativo di scongiurare la chiusura del posto, rivendica il 'diritto di stare seduti': perchè da 'Tamar' - ricorda la signora israeliana - ''nessuno è mai stato cacciato via per essere rimasto l'intera giornata a leggere un libro o a parlare con il suo vicino di tavolo. Non è come altrove''.
    Nella Shenkin piena di negozi alla moda, regno dello shopping telavivino, 'Tamar' è un salto all'indietro nel tempo. A cominciare dall'insegna (una palma e la data del 1941) per passare ai tavoli, alle sedie, al bancone (tutti spartani), alle decine di quadri appesi alle pareti, all'atmosfera informale come solo Tel Aviv può. Ma da 'Tamar' - insistono in molti - è passata la vita della città e di Israele. (ANSA).
   

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