Cultura

Concetto Vecchio, Giacomo Matteotti e noi

Il racconto di un'utopia e di una rimozione

Redazione Ansa

CONCETTO VECCHIO 'IO VI ACCUSO. GIACOMO MATTEOTTI E NOI' (Utet, pag. 230, euro 19,00).
    "Una disgrazia: iersera, tornando da teatro, ho perduto la Sua viola. Era all'occhiello del mio abito, l'ho guardata tante volte nel tempo della rappresentazione, l'ho vista negli specchi; poi, venendo a casa, devo averla perduta. E mi duole, mi duol tanto: è brutto segno. Ho paura, ho tanta paura".
    Giacomo Matteotti scrive così da Vienna, in uno dei suoi numerosi soggiorni internazionali, a quella che diventerà presto sua moglie, Velia Titta ("tu possiedi il fondo della mia anima", le scriverà anni dopo), conosciuta poco tempo prima, durante una vacanza all'Abetone e mai più lasciata in un rapporto complesso fatto più di assenza che di vicinanza. E di paura, perchè quella viola è un segno che nulla andrà come deve andare.
    È il 1912 e la lettera, parte di un epistolario raccolto con dedizione da Stefano Caretti ma mai pubblicato, è uno dei tasselli che mette insieme Concetto Vecchio in 'Io vi accuso.
    Giacomo Matteotti e noi', volume appena pubblicato da Utet che vuole riportare la figura del grande politico al centro, nel posto che merita. Il principio da cui parte Vecchio è: perché abbiamo dimenticato Matteotti? È la domanda da cui prende spunto all'inizio, come in un'indagine poliziesca non sull'omicidio ma sulla rimozione, perché solo nel 2011 la targa nella piazza del suo paese è stata completata, perché nel palazzo dove viveva ai Parioli a Roma è stato un inquilino a pagare l'iscrizione per ricordarlo.
    Viaggiando sul lento treno che lo porta tra la nebbia di Fratta Polesine, dove finalmente dopo anni di battaglie e spostamenti trova pace il feretro di Giacomo Matteotti, Concetto Vecchio cerca di dare una risposta. L'autore, che a più riprese sostiene e ribadisce di non voler scrivere un libro di storia né una biografia, ripercorre la vicenda umana e politica del deputato socialista dalla nascita all'omicidio avvenuto in circostanze misteriose il 10 giugno del 1924. Giacomo Matteotti aveva 39 anni e finiva così l'esistenza di un uomo, figlio unico di una madre vedova, ultimo di quattro fratelli prematuramente scomparsi, una famiglia ricca, commercianti borghesi divenuti grandi proprietari terrieri.
    Eppure lui, laureato in giurisprudenza, dedicherà la sua vita ai diritti dei braccianti, degli operai, dei poveri agricoltori che saranno il primo bersaglio del fascismo nascente in Polesine, con violenza inaudita. I suoi discorsi alla Camera, concreti diretti, senza infingimenti retorici, sono l'ossatura di questo bel libro militante sul senso di un'esistenza che per mille rivoli di un'Italia oscura, prima e dopo la guerra, scompare tra le pieghe della storia.
    Anche dopo la morte pesa l'impegno visionario di Matteotti - il "pellegrino del nulla" per Gramsci - per gli ultimi e contro il potere, anche dopo la fine della guerra. Tanto che la sua famiglia, i figli e poi i nipoti non ameranno parlarne e il silenzio, in questo libro che si legge anche come un giallo, è l'accusa più grande.
   

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