Cultura

Il necessario Manifesto della scienza

Dopo il Covid Pitrelli e Tallacchini per un'etica della ricerca

Redazione Ansa

(di Francesco De Filippo) (ANSA) - TRIESTE, 19 SET - (NICO PITRELLI E MARIACHIARA TALLACCHINI, MANIFESTO PER UN'EDUCAZIONE CIVICA ALLA SCIENZA, 202 pagg; 18 euro) - Una società basata sul sapere scientifico che sia però anche democratica. Sembra essere questa la comunità cui anelano le popolazioni occidentali, prescindendo dalle urlate e variegate istanze dei leoni da tastiera. Semplice a dirsi, molto complesso il farlo. La pandemia ha mostrato la corda di un aspetto del più vasto mondo della science policy (politica della scienza): le modalità con cui questa comunica con e ai cittadini. Dunque, attuale e necessario è il "Manifesto per un'educazione civica alla scienza", scritto da Nico Pitrelli, responsabile comunicazione della Sissa di Trieste, di formazione scientifica, e Mariachiara Tallacchini, docente di Filosofia del Diritto all'Università Cattolica di Piacenza.
    Un libro - con corposa bibliografia - che è un excursus a volo d'uccello sul rapporto tra scienza e collettività e (ambisce a diventare) punto di riferimento per studiosi e politici.
    Non avaro di autocritica dove necessaria, nella visione di una società trasparente, chiara, sincera, il Manifesto ricorda che sin dalla fondazione della British Association for the Advancement of Science (1831) e dell'American Association for the Advancemente of Science (AAAS, 1848), la scienza tenta continui approcci per relazionarsi con i "profani", mal celando il pregiudizio di detenere (e voler esercitare) un potere. La cultura in materia appartiene alle due suddette principali scuole di pensiero, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.
    Entrambe basate su impliciti presupposti di correttezza morale individuale, integrità delle organizzazioni scientifiche e inconfutabili competenze. Solo verso la fine degli anni '50 del secolo scorso l'impostazione ha una virata democratica, anche grazie al filosofo ungherese Michael Polanyi e al sociologo americano Robert Merton. Fin quando nel 2005 l'epidemiologo della Stanford University John Ioannidis non rese noto che i casi di fabbricazione e falsità dei dati e di irriproducibilità delle conclusioni degli articoli pubblicati su riviste scientifiche ammontavano all'esorbitante cifra dell'80 per cento.
    E' passato tanto tempo, la situazione è migliorata ma è rimasta irrisolta, le domande sono sempre le stesse: gli scienziati devono entrare attivamente nella contesa politica o tale coinvolgimento ne compromette l'obiettività? Quali sono le corrette modalità per comunicare con i cittadini? Interrogativi quanto mai attuali, vista la disastrosa comunicazione della scienza nel periodo della pandemia. La politica ha cercato disperatamente nella scienza le risposte granitiche che avrebbero rassicurato i cittadini, ma gli scienziati vagolavano nell'incertezza, sostantivo che non compare nel vocabolario della politica. E nemmeno nelle ammissioni degli scienziati. Ma comunicare sicumere e superiorità tanto finte quanto presuntuose ha soltanto creato disorientamento e panico nei cittadini, lasciando spazio a variopinti complottismi e profonde lacerazioni sociali. Con relativo discredito nello Stato e nella Scienza. Certo, è difficile indicare un modello: non ha funzionato quello basato sul pensiero che i cittadini non possono capire e non ha funzionato nemmeno quello contrario, a marca svedese durante la pandemia, che non prevedeva obblighi.
    La soluzione? La scienza progredisce per tentativi, ripone nell'incertezza e nella costanza la sua forza, riconoscere questi limiti con i suoi errori può essere il primo passo per un sapere scientifico capace di apparire affidabile. Animato dal fondamentale principio europeista di precauzione, nella prospettiva di meglio proteggere i cittadini, e nella speranza che prossima pandemia trovi tutti più preparati (ANSA).
   

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