Cultura

Il Don Chisciotte e il fantasma del moro

L'opera cardine della Spagna e lo storytelling dell'epoca

La copertina di Don Chisciotte e i suoi fantasmi

Redazione Ansa

ALBERTO MANGUEL, DON CHISCIOTTE E I SUOI FANTASMI (SELLERIO; pp.123; 12 euro).
    Lo "storytelling" a volte gioca brutti scherzi: Don Chisciotte, uno dei libri più popolari nel mondo, il capolavoro che ha dato alla Spagna un simbolo riconosciuto della sua cultura, dato alle stampe negli anni della brutale ricerca della "limpieza de sangre", della identità pura, di fede cristiana immacolata, voluta dalla Corona, viene costruito da Cervantes dando voce ad un immaginario completamente opposto. Grazie ad una finzione letteraria costruita attorno ad una figura "positiva" e non marginale nell'impianto del racconto: quella di un reietto, di un arabo, cacciato come tutti i "moriscos" dalla sua terra.
    E' questo, ci racconta Manguel, scrittore e traduttore argentino, direttore della biblioteca Nazionale di Buenos Aires, allievo di Jorge Luis Borges, uno dei "fantasmi" che aleggiano nell'opera di Cervantes, lo specchio di una finzione, dell' invenzione di Cervantes che è pari a quella costruita dalla narrazione e dalle ambizioni di chi deteneva allora il potere. Anzi, essendo quella del romanzo cavalleresco più aderente alla realtà sociale dell'epoca, la sua narrazione risulta molto più verosimile rispetto allo storytelling ufficiale che rincorreva, all'epoca, l'ideale di una fittizia purezza cristiana, con la quale la Spagna era stata privata di due terzi della sua popolazione, quella dei mori e degli ebrei.
    Il Don Chisciotte viene pubblicato a Madrid nel 1605, quattro anni prima che venisse emanato il decreto di espulsione dei "moriscos", vale a dire degli arabi che popolavano la penisola iberica. Con l'editto del 1492 che determinò la cacciata degli ebrei prima, e degli arabi qualche anno dopo, la Spagna Cattolica, con l'aiuto dell'Inquisizione, si era voluta "inventare" un identità cristiana pura, provando a cancellare le sue radici sociali e culturali. E' in quel contesto culturale che Cervantes affida la genesi del grande capolavoro della letteratura spagnola ad un "moro", grazie ad un artificio letterario. La storia del Don Chisciotte inizia infatti con un anziano signore che, influenzato dalla lettura dei romanzi cavallereschi, decide di farsi cavaliere errante. Cervantes inizia a raccontare le sue avventure ma quasi subito si ferma, confessando di non sapere più come la sua storia possa proseguire. Pagine più avanti arriva però la soluzione: l'autore racconta che trovandosi un giorno in un'affollata strada di Toledo, gli capita di imbattersi in alcune carte che lo incuriosiscono: sono scritte in caratteri arabi e Cervantes non le sa decifrare. Impaziente di scoprire cosa contenga quel manoscritto cerca quindi un "morisco" che possa tradurgliele. Ne trova uno (Cervantes ne descrive i tratti e la storia, facendo affezionare il lettore anche al suo destino di esiliato che torna nella sua amata Spagna perché incapace di starne lontano), che gli rivela che si tratta di un racconto che narra la storia di un certo Don Chisciotte, opera di un autore chiamato Cide Hamete Benengeli, o come meglio tradotto da alcuni, Sidi Ahmed Benengeli. Un Moro, dunque, condannato con il suo popolo a vivere fuori dai confini del paese e una lingua, quella araba, che era, molto probabilmente, la più antica lingua parlata nella penisola iberica ma che era divenuta ormai proibita. E' un espediente letterario quello trovato dall'autore, un vero e proprio "atto sovversivo" sostiene Manguel, uno dei tanti innumerevoli doppi che si trovano nell'opera "specchio-segreto" che popola e riempie di "fantasmi" il primo e fondamentale romanzo moderno.
    "Chi fosse Cervantes e quali fossero le sue opinioni politiche e sociali non è importante. È più importante - scrive Manguel - il fatto che per un lettore di oggi l'onnipresenza di Cide Hamete nel don Chisciotte e le scene commoventi che alludono a un popolo ingiustamente cacciato, ci dicono che una cultura esclusa non può essere facilmente messa a tacere, che nel corso della storia ogni assenza ha il peso e la forza di una presenza e che molto spesso la letteratura è più sapiente del più sapiente dei suoi artigiani". (ANSA).
   

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