Cultura

Argentina, notizie dal ghetto Varsavia

Amigorena e famiglia di origine ebrea polacca durante la guerra

La copertina de Il Ghetto interiore

Redazione Ansa

SANTIAGO H. AMIGORENA, ''IL GHETTO INTERIORE'' (NERI POZZA, pp. 138 - 17,00 euro - Traduzione di Margherita Botto).
    ''Era fuggito dalla Polonia per ragioni complesse, diverse, enormi, terribili - ragioni che, dopo aver letto la lettera di sua madre, all'improvviso gli erano sembrate totalmente futili''. Siamo in Argentina, dove il protagonista Vincente (dall'originale polacco Wincenty) è arrivato nel 1928, tredici anni prima di leggere la lettera di sua madre, che arriva nel 1941 dal ghetto di Varsavia in cui è chiusa dai nazisti, che gli cambia la vita.
    A Buenos Aires, dove continua la vita normalmente e della guerra in Europa si legge sul giornale, Vincente, commerciante di mobili, ha una moglie, Rosita, e due figlie piccole, Ercilia e Martha, ma quando legge la situazione in cui si trova la madre, per la quale ora si danna non avendo insistito perché lo raggiungesse o non essendo andato a prenderla a suo tempo, improvvisamente prende coscienza di sé e della situazione.
    ''Essere ebreo per lui non era mai stato granché importante.
    Eppure, essere ebreo, improvvisamente era diventata l'unica cosa che importasse''. Più capisce, anche con l'arrivo poi di un'altra e più terribile lettera della madre, più cerca di informarsi, più, per quel che ha alle spalle, si sente isolato e diverso dai suoi amici in Argentina, coi quali ha dispute sulle proprie e loro origini, per capire che abbiamo tutti appartenenze molteplici. Vincente è ebreo, e polacco e persino tedesco (le due lingue che parla), quindi argentino. E gli altri, compresa la moglie, possono capire ma fino a un certo punto quel che lui sente, avendo la loro vita tranquilla che continua come sempre tra lavoro, famiglia e serate al bar.
    Nasce così il suo ''ghetto interiore'', la disperazione e il mutismo, l'inerzia in cui si chiude sempre più nel ''vuoto disperato in cui viveva'', come ''questa origine ebraica fosse una grossa, pesante valigia che bisogna portarsi appresso tutta la vita''. E la sua vita va via via in rovina, l'unica cosa che lo fa sentire vivo è il vizio del gioco, che ha preso e con cui è come volesse rovinarsi, distruggersi, così che era come fosse che, ''prima ancora di morire, la morte aveva placato l'angoscia che gli impediva di vivere''.
    Il romanzo, con una scrittura asciutta ma vitale, procede sino al 1945 e la fine della guerra, raccontando i giorni tutti eguali di Vincente, la disperazione di amici e famigliari, la vita quotidiana a Buenos Aires, e l'autore ci racconta anche quel che lui ''avrebbe potuto sapere'' ma non sapeva perché le notizie erano poche e la mente galoppava immaginando cosa potessero star passando la madre e il fratello medico, chiusi in quel ghetto di fame e morte. Il racconto procede così con la vita dei protagonisti e assieme una riferire e illustrare i fatti storici dell'epoca, la nascita e pianificazione della Shoah nella Germania nazista, e scopriamo alla fine, con l'ultimo capitolo, che questo è fatto perché non di romanzo si tratta, ma di ricostruzione letteraria e veritiera delle memorie di famiglia, fatta per i figli dall'autore che è nipote di Vincente, figlio di Ercilia, nato nel 1962: ''mi piace pensare che Vincente e Rosita vivono in me, e che vivranno sempre quando io stesso non vivrò più, che vivranno nel ricordo dei miei figli, che non li hanno mai conosciuti, e in queste parole''.
    (ANSA).
   

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