Cultura

Carmosino, fiaba crudele di Celeste

Ritmata storia in versi di una bambina ridotta a due dimensioni

DANIELA CARMOSINO, ''LA SAGOMA (favola crudele)''

Redazione Ansa

    Una sagoma ''fa felici tutti'', una bambina divertente e tenera tutti la guardano e sorridono, anche la mamma e persino la nonna. Ma una sagoma è anche quella del tirassegno, è una figura piatta, a due dimensioni. E questa ''favola crudele'' di Daniela Carmosino è anch'essa una narrazione a due dimensioni, con una serie di personaggi che agiscono, intervengono e dicono cose senza riflessioni, senza interiorità. Eppure, col procedere degli anni e il crescere di Celeste, la protagonista che è come parlasse in terza persona per prendere le distanze da ciò che descrive, ciò che ricorda, è il tutto che prende una terza dimensione, un non detto che via via si fa sempre più esplicito e aspro, doloroso ed è la vera sostanza di questa filastrocca nera senza l'apparenza di esserlo.
    Infatti sostanziale è la scelta narrativa e di scrittura, che è come fosse spezzata continuamente allo steso modo dell'intimità di Celeste, e così acquista un suo ritmo e la prosa si fa poesia con un andamento da affabulazione fiabesca, da filastrocca crudele, leggera e sofferta. Altro camuffamento, altra necessità per non essere travolta da quel che viene detto.
    Un testo intenso da leggere a voce alta, col suo ''Vai a sapere, adesso, chi ha ragione'', frase ricorrente al riproporsi dei ricordi e le situazioni, a ribadire la difficoltà di far luce sul proprio passato.
    Una saga famigliare di abbandoni, di legami spezzati, praticamente tutta la femminile. Anche la mamma sorride a una bambina che è una sagoma, ma quell'anche è un persino, una sottolineatura, visto che Celeste dalla mamma viene abbandonata (''E la mamma, Celeste, dov'è? / Non poteva non esserci, eppure?''), così come era già stata abbandonata appena nata dal padre, mai conosciuto, come sarà abbandonata dai tre fratelli, Angelo il maschio, il preferito, poi Bea, anoressica e problematica di cui si prende cura la terza, molto più grande, Elsa detta Tali. Ognuno comunque appare abbastanza abbandonato a se stesso e la piccola Celeste allora viene portata via e come adottata dalla zia Elsa (''Zia Elsa ti salva... zia Elsa c'è sempre per te''), che però lavora e quindi, per aiutarla le si aggiungerà zia Nella (''Cos'altro potevo fare... chi restava a casa con te?), sempre con atteggiamento colpevolizzante, ricattatorio.
    Elsa è in più ''vedova nubile'' che vive nel ricordo fantasmatico dell'amore per Alberto, che non si è compiuto per la sua morte, e Albertino si chiamerà il figlio di Celeste per un finale a chiusura circolare, senza uscita. Sono due donne sole che usano la bambina per darsi una ragione di vita, un'illusione che finisce per trasformarsi in insofferenza, bisogno di prendersela con lei, assieme a sua madre, loro sorella: ''ti rimando da tua madre... mi illudevo cambiassi e invece sei come loro... voi la cattiveria ce l'avete nel sangue... maledetta sia tua madre e quando è nata'', sibila facendole la valigia come per riportarla indietro, anche se poi non accadrà ''dopo un'ora che implori / che prometti, che singhiozzi tra i vestiti / spiegazzati''.
    Il problema è che così Celeste patisce anche il giorno del suo compleanno, vissuto pensando che ''il momento più bello è quello delle candeline / vuol dire che è quasi finita'', sentendosi sempre diversa imparando che ''diverso vuol dire normale'' mentre gli altri bambini ''hanno radici aeree, tutte alla luce / del sole come le foto in salotto''. E la sagoma perde smalto, Celeste è l'immagine di sé che vede narcisisticamente allo specchio, una sagoma a due dimensioni, come a due dimensioni, senza più spessore diventano le persone che spariscono dalla sua vita (''finché la mamma diventa una foto''). ''Così impari, Celeste / come un animaletto selvatico ascolti e impari / a riconoscere in tempo i segnali / e poi a congelarti / fino a che non senti più niente / Se non senti non devi capire''. (ANSA).
   

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