Cultura

Michon e il gran pittore inesistente

per parlare di rivoluzione, terrore, arte, potere crea Corentin

Redazione Ansa

(ANSA) - ROMA, 26 NOV - PIERRE MICHON, ''GLI UNDICI'' (ADELPHI, pp. 134 - 16,00 euro - Traduzione di Giuseppe Grimonti Greco).
    ''Il punto è che il 'Marat' di David è solamente un uomo morto, un residuo della Storia, forse il suo cadavere. E invece gli 'Undici' uomini vivi di Corentin sono la Storia in atto, al culmine dell'atto di terrore e di gloria che fonda la Storia: la presenza reale della Storia''. E' questa la conclusione e il senso di questo affascinante e letterario racconto di Michon ai tempi della Rivoluzione francese sulla vita del pittore Francois-Elie Corentin, allievo del Tiepolo e nato nel 1730 a Combleux, prelevato da un drappello di sanculotti nel gennaio 1794 perché ritragga segretamente gli undici membri del Comitato di salute pubblica come un'assemblea di eroi e fratelli quale non sono più, ormai lacerati da feroci rivalità e detentori di un potere tirannico assoluto nel nome mistificante del popolo.
    Se non avesse creato questo grande quadro, Corentin sarebbe rimasto un pittore anonimo di secondo piano, mentre ora occupa uno dei posti centrali al Louvre.
    Naturalmente il tutto, a cominciare dal protagonista, è una pura invenzione di Michon che qui crea in grande una delle sue affascinanti ''Vite minuscole'' (come si intitola il libro che gli ha dato notorietà) prigioniere del proprio destino e che solo nella verità e qualità della scrittura, della letteratura trovano la propria verità e magari illuminano appunto la Storia.
    Così il romanzo vive non solo della vicenda del quadro, che ne è la maggior parte, ma anche dell'inizio, della famiglia di Corentin che vive sulle rive della Loira e i suoi canali, con i limosini che scavano nel fango per tenerli puliti, quindi dei suoi lavori di decorazioni di case e palazzi nobili.
    Con Robespierre, gli undici sono Barère. Billaud, Carnot, Collot, Couthon, Lidet, Prieur, Prieur, Sait-Just e Saint-André che, tra tutti, era l'unico a non avere ambizioni letterarie, così che l'io narrante, affabulatore che è come raccontasse la vicenda a Michon, il cui padre anche era un letterato, spiega del quadro: ''mi piace credere che Corentin vi abbia messo suo padre undici volte.... e naturalmente undici volte anche la rivalsa reale del padre, la sconfitta irreale del padre, in piedi''.
    Al tempo in cui dipinge non si sa cosa sarebbe accaduto, se l'apoteosi o la condanna di Robespierre, per questo occorreva che l'opera facesse apparire tutti, allo stesso tempo, ''come magnanimi rappresentanti del popolo o tigri assetate di sangue, a seconda della lettura che gli eventi avrebbero richiesto''.
    Michon quindi indaga, attraverso questa sua invenzione, il rapporto tra arte e potere, ma soprattutto alla fine ci offre un romanzo che inquisisce il trasformarsi degli uomini e la violenza inutile della Storia. E lo fa con una narrazione virtuosistica, con una scrittura molto articolata, di gran finezza in quel voler sembrare parlato ipnotico e nel confondere invenzione e realtà per meglio avvicinarci a quegli anni della Rivoluzione.(ANSA).
   

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