Cultura

Tahar Ben Jelloun, islam ci fa paura

Religione e fondamentalismo spiegati a una figlia

La copertina del libro di Tahar Ben Jelloun 'L'Islam che fa paura'

Redazione Ansa

(ANSA) - ROMA, 15 NOV - TAHAR BEN JELLOUN, 'E' QUESTO L'ISLAM CHE FA PAURA' (BOMPIANI, 224 pp., 12 euro. Traduzione di Anna Maria Lorusso) "Papà, ti faccio una domanda: dimmi, dobbiamo aver paura dell'islam?". Inutile negarlo: un po' tutti, in queste ore e giorni concitati, ci stiamo chiedendo ciò che chiede la figlia di Tahar Ben Jelloun nell'ultimo libro dell'intellettuale marocchino da anni trapiantato in Francia. S'intitola 'E' questo l'Islam che fa paura' ed è stato scritto a caldo dopo gli attacchi di gennaio a Parigi, prima alla redazione del settimanale Charlie Hebdo e subito dopo al supermercato kosher.
    Oggi, a distanza di pochi mesi, torna drammaticamente - e inaspettatamente - attuale. Ha un titolo netto, senza punti interrogativi, che implicitamente sembra rispondere: "Sì, dobbiamo avere paura". Anche perché il tributo di sangue, stavolta, è enormemente più alto. Eppure, spiega Ben Jelloun, le soluzioni semplicistiche non funzionano. "Prima di tutto - risponde alla figlia turbata - di quale islam parli?". Inizia così una conversazione ideale (seguita una raccolta di scritti dell'autore apparsi su diverse testate fra il 2012 e il 2015) che cerca di mettere dei punti fermi, di operare i dovuti distinguo. Perché di islam forse ce n'è uno solo, ma di interpretazioni ce ne sono tante. E Ben Jelloun, con precisione filologica e sforzo didattico - lo stesso di tanti suoi bestseller, come 'Il razzismo spiegato a mia figlia' -, ripercorre la storia del Corano per mostrare da dove nasce questa deviazione che non possiamo chiamare più islam, ma islamismo. Una degenerazione che in Francia si è alimentata ed è cresciuta nell'emarginazione delle banlieue, nell'apartheid sociale in cui l'estremismo e l'odio religioso hanno gioco facile ad attecchire nelle menti di giovani immigrati di seconda generazione per i quali la Francia non è madre, al massimo matrigna.
    Eppure, soltanto Oltralpe i musulmani sono sei milioni: per un reclutatore di giovani combattenti che tira la religione verso il polo della violenza, c'è un saggio che ricorda che la parola 'islam' ha la stessa radice di 'salam', 'pace'. Per una manciata di terroristi che fanno della jihad una crociata contro il resto del mondo, ci sono intere comunità che vivono in un clima di serena convivenza con i loro vicini. Mette in guardia lo scrittore: "Non si può ridurre l'islam a queste immagini orribili in cui dei criminali commettono i peggiori crimini in nome della religione di Maometto. Tu hai ragione a essere arrabbiata. Ma sappi una cosa: da circa trent'anni le prime vittime di questo islamismo violento furono gli stessi musulmani". Quei musulmani che dopo l'8 gennaio si ribellarono a qualsiasi associazione con gente come i fratelli Kouachi mostrando sui social network cartelli con l'hashtag #notinmyname, "non a nome mio", e che oggi ribadiscono il loro sdegno e il loro dolore di fronte alla nuova carneficina. Ma è davvero possibile "reinventare" un islam che sia compatibile con le leggi di una democrazia laica, che viva nei cuori e nei luoghi di culto ma lasci stare la politica, come chiede Ben Jelloun? Riusciremo ad accogliere i flussi di disperati dalla Siria e dalle coste africane senza percepirli come una minaccia alla nostra sicurezza? E se una pedagogia attenta e una maggior attenzione ai giovani sbandati delle periferie potrebbero aiutarci nel lungo periodo, come dobbiamo comportarci ora, nel preciso momento in cui ci sentiamo assediati da nemici senza volto? Il dialogo fra lo scrittore e la figlia fa luce su alcuni punti, ma al tempo stesso ci lascia con tanti interrogativi irrisolti. Ma non è necessariamente un male, visto che il dubbio è il più grande nemico del fondamentalismo. (ANSA).
   

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