Cultura

Boncompagni, il grado zero della tv

Era interamente e intimamente votato allo spettacolo e alla leggerezza

Gianni Boncompagni

Redazione Ansa

Nel giorno in cui il mondo cristiano celebra la resurrezione di Cristo, Gianni Boncompagni è morto. Se si fosse trattato di un gesto volontario, potremmo pensare all’ennesimo sberleffo dissacrante di un uomo che detestava la vecchiaia, il dolore, la sofferenza ed era interamente e intimamente votato allo spettacolo e alla leggerezza. 

Aretino come il più celebre Pietro, e come lui maestro di satira e pasquinate fin dai tempi della radio - letteralmente decostruita con programmi come Bandiera Gialla e soprattutto Alto gradimento - Boncompagni, autore e regista più che conduttore, è stato un protagonista della tv molto lontano sia dal professionismo impeccabile dei ‘bravi presentatori’ come Mike, Baudo o Corrado, sia da una concezione ‘biologica’ della televisione come quella di Costanzo, in cui il corpo del conduttore è tutt’uno con lo schermo e il programma.
Al contrario, secondo un’intuizione confermata anche dal discorso critico dei suoi detrattori più feroci, è sempre stato il vuoto il vero centro di gravità permanente della tv di Boncompagni.

Un vuoto rivendicato dal teorico (involontario) della tv di puro intrattenimento, ripetitiva e insensata, realizzata, come certi B-movie poi diventati di culto, ‘presto e male’. Un vuoto attraverso il quale, a saper vedere, non sarebbe stato difficile scorgere il ‘pieno’ di una rivelazione sociologica sulla società ‘affluente’ (le file delle mamme a Cinecittà per promuovere la carriera delle figlie, l’esibizionismo, il gusto per l’azzardo e la ricchezza facile con i celeberrimi fagioli di Raffaella Carrà). L’unico, ancora fino ad oggi, a poter passare indifferentemente (per lui e per il broadcaster) da Mediaset alla Rai mantenendo quasi inalterati successo, caratteristiche e perfino flop. L’unico a poter fare una tv di successo senza star e senza format.

Per chi crede nella società dello spettacolo, cioè per chi non trova alcuna accezione negativa nell’espressione coniata da Guy Debord per mettere in guardia dal trionfo dell’immagine sulla realtà nella società capitalistica, l’intrattenimento è uno solo e non c’è alcuna differenza tra tv commerciale e servizio pubblico. Non c’è dunque alcuna ragione per soffrire il passaggio da una all’altra. A chi lo ha etichettato come inventore del nulla dovrebbero tremare i polsi al pensiero dell’immane e vertiginosa opera creativa che in questo modo gli viene attribuita.

D’altra parte, il successo definitivo dell’artigiano del vuoto sugli intellettuali più occhiuti e infastiditi viene certificato da Umberto Eco che, all’apice del proprio successo popolare, si scomoda per affrontare il ‘caso Ambra’, reginetta con auricolare delle giovani fanciulle in fiore di ‘Non è la Rai’, che da quel momento chiamerà il semiologo di Alessandria ‘collega’. E ad ospitarlo nuovamente in Rai, con un’altra versione di vuoto televisivo, ‘Macao’, sarà, ironia delle cose, proprio un intellettuale cresciuto alla scuola situazionista di Debord, l’allora direttore di Raidue Carlo Freccero, oggi membro del cda di viale Mazzini. 

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