Cultura

Libri: Tolusso, la turbata inappartenenza di una apolide

L'autrice torna in libreria con un volume di poesie

Redazione Ansa

(di Francesco De Filippo) (ANSA) - TRIESTE, 24 APR - MARY B.TOLUSSO, APOLIDE (Mondadori, pp.105, euro 16) Apolide non per assenza di cittadinanza ma per 'inappartenenza', accezione più ampia (e disperante).
    Ma Mary B.Tolusso non attraversa l'universo del senza patria, al contrario - da sradicata - esplora, a fatica, la tela appiccicosa del 'radicato'. Parte da lontano, sembra perdersi, trascina il lettore, lo tira per una mano per poi lasciarlo lì, all' esterno di un valicabile asserragliamento.
    Ma se apolide è inappartenenza, tale è anche il lettore, tenuto a distanza ma mai sufficientemente da non percepire la voce che parla dal 'dentro' dell'autrice. Tenuto a distanza perché sappia che oltre le barriere e gli scudi qualcuno c'è e vive ma non si immischi, non vada a ficcanasare. Basti, al lettore o al curioso, quel cumulo agglutinato di esperienze che la poetessa distilla nel susseguirsi rapidissimo di sorprese, visioni, emozioni, come associazioni d'idee - o proustiani flussi di coscienza, che Tolusso conosce bene - e conclusioni definitorie. Quasi a voler scolpire un senso, appuntare una ragione alla ruvida divisa che indossiamo quotidianamente.
    Quotidianità e per assonanza, precarietà: stato che persiste ma può radicalmente trasformarsi in un istante, in un ciuffo di ore. Eppure, latente, sullo sfondo (o dentro, nel profondo) qualcosa esiste, una sorta di peccato originale dal sapore di condanna: "'forse un giorno' si potrebbe/tornare in viale XX settembre/e divenire quel che siamo". Sgomenta il reciproco: pende dunque una sentenza per la quale dobbiamo essere ciò che non siamo? Tolusso lascia sul terreno pillole di incertezza garantite da grandi autori come fossero mine per convincerci a mollare. Lo fa in esergo citando Deleuze ("A cosa serve la letteratura?") e l'Ulisse omerico ("Il mio nome è nessuno"), per poi continuare con Robert Musil ("Era difficile distinguere l'alto dal basso, le cose più profonde da quelle apparentemente intelligenti"), con ironiche dissacrazioni (Wislawa Szymborska, "non c'è dissolutezza peggiore del pensare"). Sono piccoli tranelli: a dispetto della caducità del corpo, dei limiti dell'umano, questa propaggine di pessimismo che viene da lontano e che isola i poeti e li vuole cozzare con l'indiscutibile, ebbra allegria occidentale di questi anni, contiene un beffardo, rabbioso desiderio di esserci. Una conferma che la vita va vissuta e fino in fondo.
    L'inestricabilità di alcuni passaggi - tra prosa poetica e versi - espressioni di una vergognosa intimità, espulse perché incontenibili ma camuffate dal pudore e travisate dalla gelosia di esporre parti di sé, non ci rifiuta, anzi, fa da richiamo. E se non capiamo, se non riusciamo a penetrare, allora basta adagiarsi sui suoni, sulle immagini abbozzate, sui finti pressapochismi concettuali per ritrovarsi in volo. (ANSA).
   

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