(di Paolo Petroni)
(ANSA) - ROMA, 25 SET - Alberto Moravia, di cui domani
ricorrono i 30 anni dalla scomparsa (a 83 anni, il 26 settembre
1990), "certamente oggi saprebbe dirci qualcosa di saggio e di
profondo sulla paura che la pandemia sta suscitando e
sull'ironia e lo spirito critico con cui andrebbe affrontata
questa minaccia'', sottolinea Dacia Maraini, che fu a lungo suo
compagna. Ed è proprio questo, senza dimenticare lo scrittore,
che più ci fa sentire la sua mancanza: la sua capacità di
intervenire e avere delle idee sui fatti del mondo. Molti lo
criticavano per questo, per il suo dire quel che pensava un po'
su tutto a 360 gradi, ma non erano interventi tecnici, erano
interventi di un intellettuale ancora, potremmo dire, umanista,
capace di riflettere su cose e uomini in modo di rara
intelligenza e lucidità.
Oggi quindi sono da rileggere certamente molti dei suoi
saggi, ed è sempre la Maraini che ci dice: ''Dovremmo ricordare
le parole profetiche che si trovano nel saggio 'L'uomo come
fine', in cui tratta i pericoli di una società del mercato in
cui tutto si compra e si vende, comprese le persone e le idee,
pericolo che lui vedeva molto vicino'', e che oggi è diventato
purtroppo di pressante attualità. Saggio che dà il suo titolo
esemplare a una sua raccolta di interventi, cui seguono quelli
di ''Impegno controvoglia'' e ancora ''L'inverno nucleare'',
legato alla sua battaglia pacifista per il ''tabù della guerra''
e contro la bomba atomica, e il ''Diario europeo'' della sua
esperienza da europarlamentare eletto nel 1984 come indipendente
nelle liste del Pci. Poi ci sono i suoi libri di viaggio, a
cominciare da quelli sull'Africa. Da ricordare, infine, le sue
particolari e stimolanti recensioni cinematografiche.
A questo punto, senza assolutamente metterla in secondo
piano, è doveroso sottolineare la sua opera di narratore
citando, tra la ventina di suoi romanzi, quelli che certamente
ci parlano ancora più direttamente e conservano il loro senso
per stile e contenuti, da ''Gli indifferenti'' a ''Agostino'' e
poi ''La noia'', cui si potrebbero aggiungere per la ricerca
linguistica e di un punto di vita femminile ''La romana'' e ''La
ciociara''. Ma a restare particolarmente vivi e costruire una
ritratto realista e critico di un'epoca e una società sono
certamente i suoi Racconti (con essi vinse nel 1952 uno dei
primi Premio Strega). ''Dovremmo tornare a leggerli, sono
racconti che stanno nella grande tradizione Italiana della
narrazione breve, da Basile a Mattia Bandello, da Boccaccio a
Verga, raccontando il nostro paese con ritmo di trotto, uno
sguardo di falco e due occhi da lince'', invita Dacia Maraini,
sintetizzando con tre metafore incisive la loro qualità.
Alberto Moravia, nato nel 1907 e il cui vero nome era
Alberto Pincherle, convalescente per un attacco di tubercolosi
ossea da giovanissimo, che lo costrinse a letto per 5 anni e gli
impedì studi regolari, cominciò ventenne, ancora in
convalescenza, a scrivere quello che forse resta il suo romanzo
più importante, ''Gli indifferenti'', aspro e poetico scritto
nel 1925 su quella borghesia romana indolente, melensa e
corrotta che covava e viziava il fascismo, che oggi ci appare
come un'anticipazione dell'esistenzialismo francese. Così, nel
1960 anticipa con ''La noia'' (Premio Viareggio) un certo
sentimento e inadeguatezza a rapportarsi con la realtà e passare
all'azione che crescerà col tempo nella società del boom
economico e verrà etichettato come alienazione. Del resto tutta
l'opera di Moravia nel dopoguerra, specie dopo il sottile,
delicato e intenso ''Agostino'', uscito nel 1943, ha un fondo
ideologico tra marxismo e psicanalisi, che in molti romanzi sarà
sin troppo evidente e preponderante, giocando sui temi
principalmente appunto dell'alienazione in una società
consumista e in particolare della sessualità come dato
rivelatore, suscitando spesso scandalo nell'Italia democristiana
e provinciale del tempo.
Insomma, la sua fu una figura centrale della cultura italiana
e europea del secondo Novecento, articolata e complessa, che lo
vide impegnato come narratore, ma anche come drammaturgo (''Il
mondo è quello che è'', ''Il dio Kurt'', ''L'angelo
dell'informazione''), come sceneggiatore di film, come critico e
giornalista, sempre appunto pronto a prendere posizione, a
analizzare una situazione da intellettuale, in anni in cui
questo poteva avere ancora un ruolo, aiutando gli altri a capire
e interrogarsi, sapendo che ''dovunque l'uomo non sia il fine,
bensì il mezzo e il fine non sia l'uomo ma qualsiasi risultato
materiale, noi abbiamo la pazzia. Ma di questa pazzia, appunto,
è tessuta tutta la trama del mondo moderno''; ammonendo: ''Il
trionfo della ragione non significa il trionfo dell'uomo. Al
contrario: il trionfo della ragione, comportando l'impiego della
violenza, ossia dell'uso dell'uomo come mezzo, significa la
sconfitta, la distruzione, la scomparsa dell'uomo''. (ANSA).
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Dacia Maraini, oggi sarebbe saggio e profondo su paura pandemia