Cultura

Proietti al cinema, un caratterista di genio

Da Magni a Steno a Garrone, le sue maschere diventate un modello

Gigi Proietti

Redazione Ansa

Se avesse continuato a lavorare con i registi americani che lo adoravano (Sidney Lumet negli anni '60, Robert Altman e Ted Kotcheff dieci anni dopo), oggi avrebbe anche lui una stella sulla Walk of Fame di Hollyood a celebrarne la gloria nel giorno del suo 80/o compleanno. Gigi Proietti aveva tutto per farsi adottare alla Mecca del Cinema: era bello, aitante, colto ma popolare, dotato per le lingue e gli accenti, padrone di una tecnica verbale senza paragoni, caratterista senza eguali. Invece come i suoi maestri e conterranei (Sordi e Manfredi in primis) soffriva la lontananza da casa e l'insicurezza del provinciale. Se Federico Fellini avesse scelto lui per il ruolo di Giacomo Casanova (per cui alla fine si dovette accontentare di doppiare Donald Sutherland) sarebbe diventato immortale. Invece poche volte il cinema italiano si fidò di lui come prim'attore. La maschera del caratterista gli rimaneva impressa e a lui, in fondo, piaceva così, libero di scatenarsi in scene e controscene per le quali non aveva nemmeno bisogno di un regista: sapeva fare tutto da solo e anche così si è ritagliato un ruolo in fondo unico sul grande schermo.
    Debuttò nel 1964 con una particina da poliziotto grazie a Ettore Scola in "Se permettete parliamo di donne" e due anni dopo, grazie alle prime prove televisive, si accorsero di lui a Cinecittà. Lo chiamano vecchi maestri e bravi artigiani come Alessandro Blasetti ("La ragazza del bersagliere") e Franco Indovina ("La matriarca" con Catherine Spaak); gli dà spazio Tinto Brass con il rivoluzionario "L'urlo" (primo ruolo drammatico in carriera); lo valorizza Mario Monicelli che nel '74 lo vuole addirittura in tre parti (Pattume, Colombino e nascosto dietro la maschera della Morte) in "Brancaleone alle crociate" (1970). Tre anni dopo ha una grande occasione con "La Tosca" di Luigi Magni in cui veste i panni di Cavaradossi ed è un peccato che il sodalizio tra i due migliori interpreti della "romanità" non abbia seguito per i diversi caratteri di attore e regista.
    In compenso Proietti si confronta con autori più "intellettuali" come Elio Petri ("La proprietà non è più un furto") o Alberto Lattuada che in "Le farò da padre" lo conferma protagonista drammatico. Ma è grazie alla televisione, e in particolare a Ugo Gregoretti con cui aveva già lavorato nel "Circolo Pickwick", che dispiega tutto il suo talento: nel 1974, due anni prima di Kabir Bedi, sfoggia il turbante di Sandokan in un memorabile "Le tigri di Mompracem" in cui duetta con le infiammate pagine di Salgari e la cronistoria minuta delle disavventure dello scrittore.
    Del 1976 è il suo film di culto: "Febbre da cavallo" di Steno col personaggio dello scommettitore sfortunato Bruno Fioretti detto Mandrake. Per i produttori sarebbe la spalla di Enrico Montesano, ma a svettare è proprio il suo personaggio che (si veda la celebre arringa in tribunale) diventa un modello attoriale, tanto da spingere Carlo Vanzina (figlio di Steno) a riproporgli il ruolo nel sequel del 2002. "Febbre da cavallo" è un titolo emblematico della carriera cinematografica di Proietti. Il film nasce, senza speciali ambizioni, come una pellicola di genere e all'uscita non viene quasi neppure recensito sui giornali: si scava invece una nicchia popolare anno dopo anno fino a diventare un modello della comicità romanesca e universale.
    Luigi Proietti in arte Gigi ci lascia una cinquantina di film, molto spesso accettati per puro divertimento come in "Casotto" di Sergio Citti in cui viene preso a schiaffi da Catherine Deneuve (nella scena l'attrice perse l'anello di Bulgari che il produttore le aveva regalato come simbolico compenso) o come quando Bertrand Tavernier lo sceglie per il Cardinal Mazarino in "La figlia di D'Artagnan", sorridente omaggio al cinema italiano di cappa&spada. Negli anni ha lavorato spesso con Mario Monicelli (che aveva per lui un affetto quasi paterno) e i fratelli Vanzina che lo consideravano uno di famiglia. Il suo ultimo ruolo gli si attaglia a pennello, il burbero Mangiafoco nel "Pinocchio" di Matteo Garrone: quasi irriconoscibile dietro il pesante trucco di scena, lancia sguardi fiammeggianti e bofonchia maledizioni e blandizie, come per l'ultimo scherzo di una maschera da commedia dell'arte.

   

Leggi l'articolo completo su ANSA.it