Sicilia

Mafia: maxiprocesso; regista Rai, era clima surreale

Ricorda Gullo, routine aveva preso il sopravvento

Mafia: maxiprocesso; 30 anni fa la risposta dello Stato

Redazione Ansa

(di Giovanni Franco) (ANSA) - PALERMO, 10 FEB - "Fui invitato ad andare da Trento a Palermo per curare la regia del maxi processo alla mafia, di cui oggi ricorre il trentennale della prima udienza, alternandomi ad altri mie colleghi per alcuni periodi tempo". Lo ricorda Lillo Gullo, in quel periodo regista della Rai e poi giornalista.
    "Fui chiamato sia per la mia origine siciliana, sono nato ad Aliminusa nel Palermitano, che per avere diretto altri programmi nazionali, come l'Orecchiocchio. - aggiunge - Andai con la consapevolezza che vi potessero essere dei rischi, ma non potevo certo esimermi da questa prova anche perché militante di sinistra. Arrivato a Palermo appena visto il carro armato di fronte al bunker ho avuto conferma che i miei timori non fossero del tutto campati in aria". Gullo pesa le parole, le centellina, scavando nella memoria e facendo riemergere episodi che hanno segnato la sua vita professionale. "Dal primo giorno dietro i monitor nella sala regia allestita all'interno della struttura dove si celebrava il processo ai boss ho trovato - sostiene - che non vi era né preoccupazione né tensione fra i tecnici e gli operatori in quanto l'evento era stato metabolizzata perdendo il pathos della dimensione politica e civile: la routine aveva preso il sopravvento". Il regista descrive "una sorta di processo di estraniamento". "Mentre in aula si combatteva una battaglia dello Stato contro Cosa nostra dai toni epocali - rammenta - nella sala regia i problemi erano legati a vicende squisitamente di carattere sindacale e di rispetto degli orari. E durante le deposizioni dei capimafia o dei testimoni c'era anche chi trovava il tempo di vedere altri film per ingannare il tempo".
    Dopo una pausa come a cercare le parole giuste, Gullo afferma: "Era subentrato insomma il disincanto. Come succedeva nelle riprese degli spettacoli di varietà. Trasmettevamo la tensione all'esterno senza viverla noi. Come se fossimo degli ingranaggi con il compito di dare al pubblico la possibilità di documentarsi". E poi di getto conclude "stavamo in un clima surreale. Il regista doveva pensare come un capitano di una ciurma al suo equipaggio. Eravamo impegnati a rendere le riprese nel miglior modo possibile". E si rammarica: "alla fine ho come la sensazione che sia stata un'occasione sprecata. Aver vissuto un'esperienza storica ed irripetibile senza avvertirla come tale".
   

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