Sardegna

Ignazio, a 99 anni l'orrore del lager non mi molla

Deportato in Austria, "picchiato per la pipì su filo spinato"

Redazione Ansa

DI STEFANO AMBU

Le cinghiate di una guardia tedesca dopo che aveva fatto la pipì sul filo spinato del campo di concentramento. Non era riuscito a raggiungere le latrine. E forse quel gesto era sembrato ai tedeschi un omaggio alla libertà. E un oltraggio alla forza nazista. Ma nella deportazione c'è stata anche una luce: quella di una famiglia alla quale era stato affidato come bracciante agricolo. Lo dovevano chiudere a chiave nella sua stanza, di notte. Ma gli hanno subito voluto bene, d'istinto. E quell'umiliazione della porta chiusa a quattro mandate non gliela hanno mai inflitta. Ombre e piccoli raggi di sole in una prigionia durata dal 1943 sino all'arrivo degli americani. Tra paure e speranze.

Ignazio Meleddu, 99 anni, 100 fra un mese, nato a Laconi, originario di Nurallao, poi una vita a Cagliari, ricorda tutto molto bene. "La prigionia è una brutta esperienza, essere privati della libertà e sentirsi costantemente sotto torchio non è facile - racconta all'ANSA - Il giorno in cui non sono riuscito a raggiungere in tempo la latrina mi hanno stanato con il cane quando ero sulla branda avvolto dalle coperte. E poi sono stato colpito alla testa. Sono state giornate molto dure". Meleddu ha iniziato a raccogliere le sue esperienze dieci anni fa per metterle su un libro. "Sono entrato nell'Esercito come volontario e poi - confessa - è successo di tutto: dopo l'8 settembre ero a Tirana, in Albania. E siamo stati fatti prigionieri dai tedeschi: noi con loro non ci volevamo stare". Da lì è iniziato un lungo viaggio tra camminate senza soste e treni sino al campo di concentramento in Austria.

"Ci obbligavano a fare lavori durissimi, quasi impossibili - ricorda - Mi sono finto zoppo per essere assegnato a un'occupazione meno rischiosa. In realtà non lo ero, ma avevo mostrato una vecchia ferita che rendeva plausibile quello che dicevo". Un ricordo indelebile, la notte di Natale del 1943: "Il cappellano, anche lui deportato, ci ha confessati tutti insieme, eravamo centinaia, e ci ha dato un'assoluzione collettiva. È stato un bel momento, in una situazione difficile". Poi la svolta con l'assegnazione alla famiglia Hafner ad Altmunster, da prigioniero, come aiutante nei campi: "Sono arrivato alle due del pomeriggio e si stava già lavorando nel terreno. Io, nonostante la stanchezza, ho preso subito in mano la zappa dimostrando di poter essere d'aiuto. Le Ss avevano intimato alla famiglia di tenere di notte la porta della mia stanza chiusa a chiave. Ma è bastata una giornata insieme per guadagnarmi la loro fiducia".

Dovevano essere carcerieri. E invece Meleddu, per quanto obbligato dai nazisti a stare lì, è diventato uno di casa. Un rapporto che è continuato anche dopo la guerra: "Ci siamo tenuti in contatto via lettera e sono andato a trovarli nel 1968 e nel 1984". Nel viaggio di ritorno verso la Sardegna è stato ospitato, questa volta libero, nelle baracche di un campo di sterminio con forni crematori, ad Ebensee: "I nazisti avevano ammassato gli ebrei ammazzati in una fossa comune, ma gli americani hanno preteso che venisse data loro una degna sepoltura creando un vero e proprio cimitero. Si respirava ancora l'orrore di quello che era successo poche settimane prima". Poi il ritorno a casa, lo sbarco a Cagliari, l'arrivo a Nurallao con i compaesani che quasi non lo riconoscevano più. E l'abbraccio dei familiari. 

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