(di Isabella Maselli)
(ANSA) - BARI, 05 AGO - Il viaggio questa volta è da Bari a
Durazzo. Trent'anni dopo lo sbarco della Vlora nel capoluogo
pugliese, alcuni di quei 20 mila profughi partiti dall'Albania
portando con sé solo speranza e sogni, sono diventati artisti,
professionisti, imprenditori di successo. In pochi, però,
riuscirono a fuggire e nascondersi, dopo essere arrivati nel
porto di Bari e confinati nello Stadio della Vittoria. Tutti gli
altri, quasi tutti, furono presto rimpatriati.
Nel trentennale dello sbarco, l'8 agosto 1991, la Puglia e
l'Albania vogliono ricordare. E lo fanno con alcuni dei
protagonisti di quel viaggio sulle due sponde dirimpettaie
dell'Adriatico, lì dove i destini di due popoli si sono uniti,
sulla rotta tra Durazzo e Bari. E che oggi viene raccontata a
ritroso grazie alle fotografie di Eva Meksi.
Eva, all'epoca 24enne, era tra quei 20 mila. A Bari, che da
allora è la sua casa, ha lavorato come interprete, traduttrice e
mediatrice culturale ma la sua grande passione è la fotografia.
In dieci scatti, che saranno da domani in mostra nel Palazzo
della Cultura di Durazzo, racconta in immagini la speranza
diventata realtà di giovani donne partite cl sogno di vivere e
realizzarsi in Italia. Le foto panoramiche dei porti di Bari e
Durazzo visti dal mare aprono e chiudono l'esposizione e poi,
nel mezzo, otto donne albanesi, nessuna delle quali arrivò con
la Vlora e anzi molte sono figlie di quella generazione,
ritratte sui rispettivi luoghi di lavoro: un'avvocata, una
docente universitaria, una operatrice culturale, una mamma e due
medici. "Abbiamo voluto far vedere come si è integrata la nostra
comunità", spiega l'artista.
Lei, Eva, quel percorso verso l'integrazione l'ha vissuto tra
sacrifici e sofferenze. "Sono passati trent'anni ma ricordo quel
giorno come se fosse ieri, non ho rimosso niente perché non ho
rinnegato niente di quella scelta. Certo - racconta - sono stati
anni difficili. Per più di un anno io e mio marito ci siamo
dovuti nascondere, eravamo clandestini considerati invasori,
quasi ci vergognavamo di esistere, cercavamo di essere più
invisibili possibile, perché clandestino era sinonimo di
delinquente, invece eravamo persone che soffrivano".
"Ma soprattutto - dice citando una frase divenuta famosa -
eravamo persone, come disse di noi il sindaco Enrico Dalfino.
Abbiamo onorato le sue parole con la nostra vita, dimostrando
che non siamo sporchi, brutti, cattivi e ladri ma persone con
voglia di migliorare e lavorare". (ANSA).
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