Emilia Romagna

Salute: la fibromialgia tra i rischi del 'long Covid'

Studio italiano, più frequente per i pazienti maschi e obesi

Redazione Ansa

Tra i rischi e le complicanze del 'long Covid', ovvero i postumi della sindrome causata dal coronavirus ci sarebbe anche la fibromialgia, la sindrome reumatologica caratterizzata da dolore muscoloscheletrico diffuso e da diversi altri sintomi come stanchezza cronica, disturbi del sonno, disturbi dell'apparato gastroenterico o alterazioni della sfera cognitiva. In particolare il rischio sarebbe maggiore per gli ex pazienti di Covid di sesso maschile e obesi. È quanto emerge da uno studio coordinato dall'Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna.
    La ricerca, che evidenzia la presenza del cosiddetto 'FibroCovid', è stata recentemente pubblicata sulla rivista della società scientifica che riunisce i reumatologi di tutta Europa (Rmd Open: Rheumatic and Musculoskeletal Diseases).
    "Nel nostro studio - spiega Francesco Ursini, professore associato in reumatologia - grazie a un'indagine condotta su oltre 600 persone con postumi a lungo termine di un'infezione sintomatica da Covid-19, quello cioè che si intende per long-Covid o post-Covid-19 syndrome, abbiamo osservato per la prima volta al mondo che circa il 30% dei pazienti manifesta sintomi compatibili con la diagnosi di fibromialgia anche a distanza di sei mesi e oltre dalla guarigione dell'infezione acuta. Un aspetto interessante è che tra i principali fattori di rischio per sviluppare questa sindrome, che abbiamo definito FibroCovid, vi sono in particolare il sesso maschile e l'obesità. Mentre l'obesità è un noto fattore predisponente per la fibromialgia e per le malattie muscoloscheletriche in generale, il sesso maschile è generalmente meno interessato da questa condizione". "Questo dato, apparentemente sorprendente, in realtà concorda con l'accertata tendenza a sviluppare forme più severe di Covid-19 nei soggetti di sesso maschile", precisa Riccardo Meliconi, direttore della struttura di Reumatologia del Rizzoli.
    Allo studio hanno contribuito importanti centri di reumatologia italiani, Università dell'Aquila, Università Campus Biomedico di Roma, Università di Torino. (ANSA).
   

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