Regioni

Tancredi Parmeggiani alla Guggenheim

A Venezia retrospettiva dell'artista attraverso 90 opere

Redazione Ansa

VENEZIA - Torna Tancredi nelle stanze di Ca' Venier dei Leoni, nel palazzo sul Canal Grande eletto da Peggy Guggenheim a sede del suo mecenatismo. Luogo che fu spazio di lavoro per l'artista e casa-galleria della collezionista che colse in quel giovane sceso in laguna a Venezia dalle pendici delle montagne venete, la natia Feltre, "il miglior pittore italiano, dai futuristi in poi", come lei stessa ebbe a dire in una testimonianza pubblicata nel '73 in una rivista (Arte Milano).

Dal 12 novembre al 13 marzo la Collezione Peggy Guggenheim presenta una mostra, curata da Luca Massimo Barbero, che riporta nella città lagunare la cifra artistica di Tancredi Parmeggiani, attraverso 90 opere, parte di proprietà della stessa collezione e parte provenienti da musei di mezzo mondo, ai quali la stessa Peggy donò dipinti fondamentali di quello che è riconosciuto come uno degli interpreti più originali e intensi della scena artistica italiana della seconda metà del '900.

E' la retrospettiva dedicata a un artista che, come scrisse Dino Buzzati dopo la sua morte nelle acque del Tevere, a Roma, il 27 settembre 1964, era pronto ad entrare nel "mito di Tancredi". Barbero, quasi mutuando le parole di Peggy, definisce Tancredi, per il breve arco della sua vita, appena 37 anni, "una sorta di cartina di tornasole del contemporaneo artistico". Fu l'unico artista, assieme a un altro "mito", Jackson Pollock, a essere messo sotto contratto da Peggy. Non un rapporto in esclusiva, però, ricorda il curatore, perché "Tancredi era incontenibile, aveva un ritmo di lavoro continuo, aveva nell'essere inquieto la sua essenza".

Un rapporto che durò cinque anni - "ai tempi in cui lo proteggevo - disse ancora Peggy Guggenheim nella testimonianza -, dal 1952 al 1957, i suoi quadri avevano una qualità magica" - chiuso senza traumi ma dal desiderio di ricominciare a viaggiare di Tancredi: "non c'è - spiega Barbero - una rottura drammatica tra i due, ma Tancredi pensa che Venezia gli sia stretta. A far capire come per Peggy sia ancora importante c'è un'immagine del '57 che la ritrae attorniata da quadri dell'artista feltrino".

L'esposizione, in quel palazzo dove l'artista per alcuni anni aveva lo studio, unico tra i tanti artisti che in quegli anni ruotavano attorno al 'pianeta' Peggy, 'veste' il mito attraverso lavori che vanno dalle prove giovanili, autoritratti e ritratti, alle prime sperimentazioni su carta del 1950-51, al progressivo passaggio a una frammentazione del segno, a una ricerca di matrice astratta nell'arco degli anni '50. Sono gli anni delle sue esposizioni internazionali, dei viaggi e della ripresa dei contatti con le diverse 'avanguardie' dell'epoca. Nell'opera c'è il desiderio di dare astrazione allo spazio e farlo diventare "una composizione di segni".

"Tancredi - sintetizza il curatore - stenografa l'universo". Poi gli anni '60, dove accanto alla crisi esistenziale e al desiderio di revisione della propria pittura, l'artista feltrino sa essere comunque avanti recependo i segni dell'epoca, della Guerra fredda, mentre il mondo dell'arte volge al Pop. Ed è in quegli anni, da quel sentire, che Barbero lancia la sfida di cogliere il titolo della mostra: "La mia arma contro l'atomica è un filo d'erba. Tancredi. Una retrospettiva". "La favola di Tancredi - ebbe a scrivere il critico veneziano Giuseppe Mazzariol -. Luminosa come quella di Kandinsky, racconta di un mondo in cui la speranza è all'alba, e a sera brilla ancora l'attesa di un domani".

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