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Giuseppe Capogrossi, la forza del segno

A 50 anni morte la Gnam celebra uno dei maestri dell'informale

Redazione Ansa

ROMA - Un lungo percorso per affermare la forza del segno, un cammino cominciato negli Anni Trenta con la pittura figurativa di volti, corpi e ambienti seguendo la rotta del tonalismo, la crisi attraversata dopo la fine della seconda guerra mondiale per approdare all'astrattismo di cui è diventato uno dei grandi maestri. Racconta l'evoluzione - e il tormento con cui si trovò a lungo a fare i conti - di un personaggio che non amava i riflettori 'Dietro le quinte', la mostra che fino al 6 novembre la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma dedica a Giuseppe Capogrossi a 50 anni dalla morte. La cinquantina di opere, tra lavori su carta e dipinti, selezionate dalla curatrice Francesca Romana Morelli, rappresentano la prima retrospettiva che affianca per la prima volta il primo periodo di attività del pittore con la produzione astratta che lo ha reso celebre. Il prologo nella sala che apre l'esposizione è affidato a una ventina di disegni scelti per documentare proprio il passaggio di campo, dai nudi di donna ai simboli grafici celebrati nel vasto campionario delle Superfici che hanno scandito l'intera carriera successiva.

Lasciare il figurativo fu una scelta necessaria ma non facile. Emanuele Cavalli - con lui in un Autoritratto suggestivo del 1927 - amico di vita e di pratica artistica a Roma e nel paesino di Anticoli Corrado con cui aveva condiviso l'adesione alla Scuola Romana e nel 1933 la paternità (insieme con Roberto Melli) del Manifesto del Primordialismo Plastico, non gli perdonò quel "voltafaccia". Non fu l'unico se lo stesso Capogrossi ancora nel 1968, presentando la mostra del Jewish Museum di New York dedicata alle opere recenti di pittori e scultori italiani, spiegò che nel lavoro dei venti anni precedenti, "contro le derisioni e gli attacchi di molti", aveva continuato a "rispettare la regola basata su linea, forma e colore" e a procedere con disegni e studi "di chiarimento per me stesso" come aveva sempre fatto. "Ho subìto e subisco spesso anche ora che non sono più giovane - scrisse nella nota in catalogo - molte umiliazioni e quella che mi intristisce di più è la banale domanda, spesso in buona fede, fatta con tono di compatimento : 'ma seguiti a lavorare con la solita forchetta?".

Quella forchetta, che altri chiamavano "pettine, tridente, mano e scarafaggio", è il suo marchio inconfondibile di cui la mostra offre un saggio ampio e diversificato, dalle Superfici degli anni Cinquanta più conosciute, al grande Arazzo del 1963 collocato sulla parete di prua del transatlantico Michelangelo (oggi alla Gnam), ai rilievi bianchi di grande effetto che occupano una piccola sala.

Giusta ed efficace, in questo senso, la scelta di affiancare alle opere astratte quelle, intense e rarefatte, del primo periodo - come Il Vestibolo e Ritratto Muliebre (del 1932), o Nudo disteso (1940) e Dietro le quinte (1938). "La mia ambizione - scrisse l'artista nel 1955 presentando una sua mostra al Museum of Modern Art di New York - è di aiutare gli esseri umani a vedere quello che con i loro occhi non percepiscono: la prospettiva dello spazio nel quale nascono le loro opinioni e azioni". Uno spazio, chiarì, da lui sempre considerato "una realtà interna alla nostra coscienza" che aveva cercato di esprimere prima con immagini naturali o affinità derivate dal mondo visibile, e poi "direttamente attraverso il senso dello spazio - spiegava - che era dentro di me".

Le celebrazioni di Giuseppe Capogrossi (1900-1972) avranno un seguito in 25 musei italiani che, dal 9 ottobre, il giorno della morte dell'artista, hanno in programma mostre, eventi, incontri e approfondimenti per mettere in luce il segno lasciato dal maestro nelle sedi espositive e nelle istituzioni italiane.

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