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Geminga, la stella che non c'è ha un alone di raggi gamma

Potrebbe spiegare l'eccesso di antimateria vicino alla Terra

La pulsar Geminga è avvolta da un alone di raggi gamma (fonte: NASA/DOE/Fermi LAT Collaboration)

Redazione Ansa

Scoperto un debole alone di raggi gamma intorno a Geminga, la stella 'che non c'è' (in dialetto milanese), scoperta nel 1972 dall'astrofisico Giovanni Bignami e rivelatasi 20 anni dopo una pulsar, ovvero uno di quei 'fari cosmici' che si formano dopo la morte di una stella massiccia esplosa come supernova.

Il suo alone, che se fosse visibile a occhio nudo apparirebbe 40 volte più grande della Luna piena, è stato individuato grazie al telescopio spaziale Fermi della Nasa e potrebbe spiegare l'origine dell'eccesso di antimateria osservato intorno alla Terra. Lo indica lo studio pubblicato su Physical Review D dal Goddard Space Flight Center della Nasa con l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e l'Università di Torino.

Negli ultimi 10 anni, diversi strumenti come l'Ams-02 (appena riparato da Luca Parmitano a bordo della Stazione spaziale internazionale) hanno rilevato attorno alla Terra un misterioso sovraffollamento di particelle di antimateria, i cosiddetti positroni, che sono la controparte degli elettroni. Sulla loro origine sono state fatte numerose ipotesi, dall'emissione da parte di pulsar al decadimento di particelle di materia oscura galattica.

"Dai risultati del nuovo studio emerge che Geminga da sola potrebbe giustificare fino al 20% dei positroni osservati", racconta Mattia Di Mauro, ricercatore del Goddard Space Flight Center della Nasa e della Catholic University of America, autore dello studio insieme a Silvia Manconi e Fiorenza Donato, ricercatrici dell'Infn e dell'Università di Torino.

 "Geminga è sicuramente una sorgente di elettroni e positroni: lo avevamo dimostrato già nel 2003 e nel 2004 in due lavori basati su dati del telescopio Xmm", rileva l'astrofisica Patrizia Caraveo, dell'Inaf, che con Bignami ha rivelato la vera natura di Geminga, distante 815 anni luce. "Il vero problema - osserva l'esperta - è la diffusione: il fatto che i positroni arrivino o meno a noi dipende infatti dal coefficiente di diffusione adottato, e alcuni autori ritengono sia assolutamente improbabile".

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