Rubriche

Le ossa delle vittime della Spagnola raccontano una nuova storia

Contraddetta la convinzione che fossero soprattutto giovani e sane

Un ospedale d'emergenza a Camp Funston, in Kansas, durante la pandemia influenzale del 1918 (fonte: National Museum of Health and Medicine, Otis Historical Archives New Contributed Photo Collection / Wikimedia Commons)

Redazione Ansa

Le ossa delle vittime della pandemia di Spagnola del 1918 raccontano ora una nuova storia: l’influenza, che si stima abbia fatto 50 milioni di vittime in tutto il mondo, in realtà non ha ucciso in modo sproporzionato i giovani adulti in salute, una convinzione molto diffusa basata sui resoconti storici dell’epoca. È quanto afferma un nuovo studio pubblicato sulla rivista Pnas dell’Accademia Nazionale delle Scienze americana e guidato dalla canadese McMaster University: grazie all’analisi di centinaia di resti, i ricercatori hanno concluso che il razzismo e la discriminazione, insieme ad una cattiva salute preesistente, sono stati fattori che hanno amplificato gli effetti dell’influenza, proprio come è avvenuto anche con la pandemia da Covid-19.

Gli autori dello studio, guidati da Amanda Wissler, hanno esaminato le ossa di 369 individui ospitati nel Museo di Storia Naturale di Cleveland e morti tra il 1910 ed il 1938. Lo scheletro, infatti, può raccontare molto dei cambiamenti avvenuti durante la vita di una persona: ad esempio, una cattiva salute porta ad una statura inferiore, crescita irregolare, difetti dello sviluppo dei denti e altro. Inoltre, traumi fisici e infezioni causano un’infiammazione che porta alla formazione di nuovo osso: è possibile quindi determinare se, al momento della morte, la lesione era ancora infiammata oppure in via di guarigione.

“Confrontando chi aveva lesioni e se queste erano attive o in via di guarigione otteniamo un quadro di ciò che chiamiamo ‘fragilità’ di un individuo, ovvero chi mostra le maggiori probabilità di morire”, afferma Sharon DeWitte dell’Università del Colorado a Boulder e co-autrice della ricerca. “Il nostro studio mostra che le persone con queste lesioni attive sono anche le più fragili”. E lo stesso si può dire per chi aveva sofferto in precedenza di malnutrizione e altri fattori di stress ambientali, tipici di individui che vivevano in condizioni socioeconomiche svantaggiate.

Leggi l'articolo completo su ANSA.it