Salute e Benessere

Emicrania, risultati monoclonale anche in pazienti difficili

Evidenze in vita reale superano attese basate su studi clinici

Emicrania, risultati monoclonale anche in pazienti difficili

Redazione Ansa

C’è un grande fermento scientifico nel campo dello studio dell’emicrania. Uno dei temi centrali sono gli anticorpi monoclonali, tra le ultime novità in fatto di cure e di cui gli studiosi vogliono approfondire meglio le opportunità di collocamento nello scenario terapeutico. Ma c’è anche molta ricerca di base, per offrire una soluzione anche a tutti i pazienti che a questi farmaci non rispondono. A fare il punto, dopo il sedicesimo congresso a Vienna della European Headache Federation che si è tenuto dal 7 al 10 dicembre, è Simona Sacco, professoressa di Neurologia presso l'Università dell'Aquila. All’interno del congresso vi è stato un simposio, denominato “Navigating the clinical complexity of migraine prevention in the real world”, nel quale si è parlato anche di un anticorpo monoclonale messo a punto da Teva. Il primo punto su cui ci si è focalizzati riguarda lo studio Pearl, uno studio paneuropeo in cui vengono inclusi da diversi centri dislocati in tutta Europa pazienti che nella vita reale ricevono il trattamento con questo farmaco. “Sono stati presentati dati preliminari su un’analisi ad interim perché lo studio è ancora in corso - rileva Sacco - ma questi dati ci fanno vedere che nella vita reale la risposta a questo anticorpo monoclonale è migliore di quelle che erano le attese basandosi sui risultati degli studi clinici randomizzati”. “Questo - prosegue l’esperta - è un dato importante, se si tiene conto che negli studi che hanno portato poi all’approvazione del farmaco erano inclusi pazienti con un basso impatto dell’emicrania e che non avevano alle spalle precedenti fallimenti terapeutici. Nello studio Pearl i pazienti esaminati erano invece molto complessi, con alto impatto dell’emicrania e che avevano già fallito precedenti terapie. È stato riscontrato un 50% in più di ‘responders’, cioè di persone che hanno risposto alla terapia”. “Un altro dato - aggiunge Sacco - è relativo invece allo studio Finesse, effettuato in Germania e Austria su 150 pazienti trattati con l’anticorpo monoclonale di Teva dopo essere prima passati per una terapia orale poi per un altro anticorpo monoclonale che avevano fallito. Anche in questo gruppo specifico e complesso di pazienti, si è osservato che l’anticorpo monoclonale di Teva dava dei tassi di risposta tra il 35 e il 40%. Un risultato davvero positivo, se si pensa che questo trattamento era per questi pazienti una sorta di ultima spiaggia”.
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