Rubriche

Cannes: Don Chisciotte è vivo e Terry Gilliam pure

Inseguito per quasi 30 anni, il viaggio picaresco è film di chiusura

Redazione Ansa

E alla fine si vide. Atteso dai cultori del talento geniale controcorrente immaginifico surreale di Terry Gilliam, inseguito dallo stesso autore dei mitici Monty Python dell'inizio anni '70, 'The man who killed don Quixote' ha avuto il suo battesimo. E' il film di chiusura del festival di Cannes, in bilico fino a qualche giorno fa, per l'ennesima pendenza giudiziaria su quest'opera (una causa intentata dal produttore Branco, ironicamente ringraziato nei titoli di testa), è stato proiettato finalmente e lo stesso Gilliam, reduce da un problema di cuore che ne ha messo in pericolo l'arrivo sulla Croisette, lo accompa.
  
  Sono quasi 30 anni che Gilliam tenta di realizzarlo con traversie indicibili, produttori ritirati, pellicola finita, alcune scene realizzate (con Johnny Depp e Jean Rochefort), una sfortuna dietro l'altra (persino un documentario Lost in La Mancha le ha ricostruite). Ma lui aveva tanto da dire con questo ambizioso film che alla fine l'ha portato a compimento: Don Quixote è vivo, come ci racconta tutto il film, e Terry Gilliam pure. Il regista, sceneggiatore, comico, scrittore, nato americano ma definitivamente inglese (ha rinunciato per motivi politici alla cittadinanza Usa) , con quell'intelligenza acuta, la testa sempre immersa in qualche progetto visionario, naturalmente complicatissimo, ha 77 anni e una linfa cinematografica non esaurita dopo una carriera di film fantastici come, oltre ai Monty Python, Le avventure del barone di Munchausen, La leggenda del re pescatore, Brazil, Paura e delirio a Las Vegas.

    Il suo film è un viaggio, incubo e sogno al tempo stesso, un racconto sulla libertà, il coraggio, l'irruenza. Come nella storia di Don Chisciotte anche qui c'è un vecchio impazzito e il suo fedele assistente Sancho Panza, a percorrere La Mancha desertica spagnola. Incontrano i mulini a vento, i giganti del romanzo di Cervantes, ma dentro i villaggi incrociano migranti illegali, un milionario russo produttore di vodka con guardie del corpo e bionde escort trattate senza dignità. Dal piano del romanzo, con tutto il suo immaginario secentesco di cavalieri erranti, armature, cavalli, asini, Dolcinea, Malandrino e Rossinante, si passa in un gioco di stanze comunicanti ai tempi nostri, ad un regista americano, interpretato da Adam Driver, che vuole girare un Don Chisciotte tornando nei luoghi dove aveva girato all'Università un corto, The man who killed Don Quixote, rintracciando quei protagonisti di allora, quel calzolaio di paese che convinse a diventare il cavaliere senza macchia e senza paura (un favoloso Jonathan Pryce), l'adolescente figlia dell'oste (Joana Ribeiro).

    Il personaggio attraversa le epoche, non abbandona l'impeto di difendere i deboli e lottare contro i torti: il regista non se ne libera neppure quando il vecchio pazzo muore, sarà lui a continuare la battaglia. E dentro tutto questo ci racconta le abbacinanti luci dello spettacolo: l'adolescente cui il regista fa credere di poter diventare una stella e invece era solo una bella ragazza, il calzolaio che per il regista è una faccia giusta ma che invece entra così tanto nella parte da non volerla lasciare più. E poi ancora il produttore potente, che molesta e non rispetta, come un Weinstein qualunque. Sono due ore, tante, ma bisogna capirlo, sono 20 anni che aspetta.
   

Leggi l'articolo completo su ANSA.it