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Rifugiati a Mondiali staffetta: siamo atleti, non profughi

Alle Bahamas continua avventura della squadra dopo Olimpiadi Rio

I quattro staffettisti: Gay Niang, Wiyual Puok, Dominic Lokinyomo e Paulo Amotun

Redazione Ansa

NAPOLI - Sono arrivati ultimi, a 45 secondi dal Qatar, penultimo, ma il risultato conta poco. La vittoria per gli atleti del 'Refugee Team' era arrivata già salendo su quell'aereo che li ha portati alle Bahamas per i campionati mondiali di staffetta della Iaaf, la federazione internazionale di atletica leggera. "Non è il nostro miglior tempo, ma sappiamo che l'importante per noi era essere qui. Il nostro viaggio, però, non è ancora finito, sono sicuro che la prossima volta faremo ancora meglio", hanno spiegato i quattro staffettisti al termine della gara dei 4x800 metri, chiusa con il tempo di 8'12''57. I quattro atleti sono arrivati alle Bahamas grazie alla Fondazione Sport is For Peace di Tegla Lorupe, ex fondista keniota, cinque volte oro ai Mondiali di Mezza Maratona e prima atleta africana donna a vincere la Maratona di New York. Grazie a lei, e al contributo di 20.000 dollari che la Iaaf ha dato per permettere la prosecuzione del progetto, Gay Niang, Wiyual Puok, Dominic Lokinyomo e Paulo Amotun si sono allenati nel camp dell'ex atleta a Ngong, vicino Nairobi e hanno potuto affrontare il viaggio verso le Bahamas, una luogo del tutto nuovo: "Quando mi dissero che avrei fatto parte della squadra per i Mondiali alle Bahamas risposi 'dove si trova, in Africa?'", dice sorridendo Niang, 25enne profugo del Sud Sudan in un'intervista al sito della Iaaf. Il mezzofondista, specialista degli 800 metri, sa come accettare le sfide: "Ci sono molti modi per affrontare il fatto di essere un rifugiato - dice - non riguarda solo essere vittima di una guerra, riguarda il fatto che anche se sei lontano dalla tua terra niente deve fermarti nel fare quello che vuoi davvero realizzare". E il sogno di Niang è sempre stato di correre, di misurarsi con i migliori, come gli americani Brannon Kidder, Erik Sowinski, Casimir Loxsom e Clayton Murphy che hanno vinto l'oro nella staffetta. "Sono atleti che ho sempre visto in tv - racconta Niang - è stato bello correre con loro che sono dei ragazzi come me". Ragazzi con cui i quattro atleti hanno potuto condividere le loro esperienze, come racconta Paulo Amotun, 25enne del Sud Sudan, che ha già partecipato con il team dei rifugiati alle Olimpiadi di Rio. Pauolo era stato lasciato alle cure di suo zio da bambino, quando i suoi genitori erano stati costretti a scappare dal Paese e solo anni dopo li ha raggiunti in un campo profughi: "Abbiamo raccontato agli altri atleti le nostre storie - spiega - ma abbiamo anche condiviso con loro i consigli su come gareggiare al meglio e allenarci, anche se a volte i problemi più grandi non sono nelle tecniche di allenamento, ma nelle scarpe. Spesso nei campi ci si allena con scarpe sbagliate e si subiscono infortuni". Un problema condiviso da migliaia di ragazzi che sognano di diventare atleti e che sempre di più vedono nel team dei rifugiati un obiettivo per togliersi le etichette di dosso: "Non conta se veniamo dall'Africa o se siamo profughi - spiega Niang - nello sport siamo un unico popolo, quello degli atleti".

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