(ANSA) - Napoli, 10 lug - Oltre un milione di rifugiati
hanno compiuto un viaggio dal Medio Oriente ai Pesi dell'Est
Europa nel 2015. E' questa la storia raccontata da Giles Duley,
il fotoreporter inglese che nel 2011 saltò su una mina in
Afrganistan perdendo le gambe e un braccio ma continua a
lavorare. Duley nell'ottobre 2015 ebbe l'incarico dall'Alto
Commissariato Uno per i Rifugiati (Unhcr) di documentare la
crisi dei rifugiati. Per sette mesi viaggiò in 14 Paesi
dell'Europa dell'Est e del Medio Oriente, dai campi profughi in
Iraq, Libano e Giordania, fino alle spiagge della Grecia: ora
quel lavoro è raccolto nel libro "Posso solo raccontare quello
che i miei occhi vedono", un percorso che Duley racconta al
quotidiano arabo Gulf News.
"L'Unhcr mi fece un briefing breve ma importante - ricorda
Duley - segui il tuo cuore. Quindi cominciai a concentrarmi non
sulla crisi nel suo insieme ma sulle singole storie, sapendo che
ne avrei potuto cogliere solo alcune, da qui il titolo del
libro". Il racconto di Duley parte dalla spiaggia di Lesbo, in
Grecia, dove nell'autunno 2015 sbarcarono 5.000 persone. "Ero
stato in Angola, Afganistan, Iraq, avevo visto il peggio che
l'uomo riesce a esprimere eppure mi ritrovai su quella spiaggia
a piangere. Ci misi un o' a capire cosa mi aveva colpito: non
avevo mai visto una tale massa di persone muoversi, mettendo a
rischio la propria vita, rischiando tutto per la libertà. Nei
campi profughi c'è la sofferenza, ma è statica, lì venni
travolto dalla paura che vidi nei loro occhi". E non fu il
solo. Il fotografo sfata il mito dei reporter indifferenti al
dolore: "Non ci fu un solo giornalista o fotografo che non entrò
in acqua per aiutare le persone a scendere dalle barche.
Portavamo coperte, in diverse occasioni prendevamo bambini in
ipotermia e li mettevamo in auto accendendo l'aria calda:
migliaia di persone sbarcavano e non c'era una sola ambulanza
vicino a quella spiaggia".
Duley racconta anche delle sue scelte stilistiche a partire
dall'idea di ritrarre molti migranti su uno sfondo bianco: "Se
vedi qualcuno fotografato in un campo profughi - spiega - lo
vedi come un rifugiato, io volevo che fossero visti come
persone. Nei campi profughi non ho visto persone che speravano o
che tiravano pietre come spesso vengono ritratte sui media. Ho
visto persone che cercavano di costruire una normalità per sé e
per i propri figli. Vedi amore, risate, bambini che giocano,
persone che cucinano, è importante che un fotografo documenti
questo, perché sono momenti a cui tutti possiamo relazionarci.
In Giordania mi avevano detto che difficilmente avrei ritratto
donne, per motivi religiosi. Dopo qualche giorno tre donne mi
chiesero una sigaretta ma non volevano che lo sapessero i loro
mariti, così andammo dietro ad un palazzo e lì fumarono e risero
a lungo". E ripensando al suo lavoro, il fotografo ricorda non
solo fli immigrati, ma anche tanti europei: "Uno degli aspetti
più incoraggianti di questi ultimi due anni è stato il numero
enorme di volontari che ho visto in opera, persone che non
l'avevano mai fatti e che sentivano di dover intervenire. A
Lesbo incontrai due donne greche che stavano vicino alla
spiaggia e abbracciavano ogni bambini che sbarcava. Mi
spiegarono che erano esse stesse immigrate, le loro madri erano
sbarcate lì tanti anni prima dalla Turchia, 'in ognuno di questi
bambini rivediamo le nostre madri', mi dissero. (ANSAmed)
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Persone, non profughi. Lo sguardo di Duley su crisi migranti
Fotografo racconta viaggio di 7 mesi tra Europa e Medio Oriente