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Grossman, israeliani? Vorrei fossimo più mediterranei

Scrittore su barca 'Progetto Mediterranea'

Redazione Ansa

David Grossman, tra i più celebri scrittori israeliani, è stato ospite di Progetto Mediterranea a Tel Aviv. Ecco il racconto di Simone Perotti, comandante della spedizione scientifico-culturale e scrittore

TEL AVIV - "Vorrei avere molti più elementi mediterranei nella mia vita. Qui temo che siamo più mediorientali: belligeranti, aggressivi…" Iniziamo con una sorta di confessione sulla scarsa mediterraneità israeliana. David Grossman, uno dei maggiori scrittori mondiali, ha accolto il nostro invito ed è salito su Mediterranea. "Nessuno parla dell'essere mediterranei. Quella certa morbidezza, il compromesso, l'umorismo, la ritrosia al fanatismo. Capisci perché noi non lo siamo? Noi siamo l'opposto. Qui nasci e cresci nella cultura del trauma. Diventi un guerriero così! Sospetto, forza, investimenti di denaro in armamenti e difesa…".
Chiedo a David Grossman cosa pensi dell'idea di un Mediterraneo unito. Gli ricordo che a Ventotene, nel '43, mentre l'Europa era in fiamme qualcuno sognò. "Bisogna sognare, certo! Sognare è come gettare un'ancora nel futuro, afferrare la catena e tirarsi in avanti. Fino a che fai questo, sei ancora libero".
"A Camp David eravamo molto vicini, ma per fare davvero la pace serve il calo dell'istinto di sopravvivenza, che ci ha tenuto vivi sempre in passato. Quell'istinto ci ha salvato, perché separarcene? Così pensa la gente… Servono leader coraggiosi, che non collaborino con la paura della gente. Purtroppo qui per essere eletto devi dare cibo a quella paura. Netanyahu è bravissimo a stressare i rischi attuali e unirli ai traumi del passato. Se non schiacci il bottone della paura come politico fai poca strada. Qualcuno che sta crescendo c'è sia tra i laburisti, sia nel Joint Arab List, il cui leader è molto in gamba, e può essere il partner del dialogo. D'altra parte, in questo paese, il 20% della popolazione è arabo ed è emarginato. Il punto è quello".
"Qui l'identità non la capisci da chi uno è, ma da chi odia". La frase è tanto lapidaria quanto terribile. Torno sulla questione palestinese: "Serve un confine, perché ognuno di qua e di là assapori la pace. Senza confine non c'è casa. Io sono israeliano, anche i palestinesi devono sentirsi a casa nel loro paese, con un confine vero che li protegga, non come questo orribile muro che abbiamo costruito". Gli chiedo cosa pensi dello stato binazionale, idea che serpeggia sempre più anche se, soprattutto, in ambiente labour e intellettuale. "L'idea è splendida, suggestiva, nobile, ma poco realistica. Qui il maggiore problema è il sospetto, e poi la mancanza di fiducia. Nessuno si fida, non i palestinesi, non gli israeliani".
Chi può aiutare, chi può e deve fare qualcosa? "L'Europa può e deve fare molto. Non si può dire che i problemi del terrorismo dipendano da questo nostro conflitto, ma certo questo ne è un focolaio. L'Europa deve stimolare Israele in tutti i modi possibili, ma intendo dagli asili alle università, dalle orchestre ai progetti culturali, oltre alla politica ovviamente, stimolare, spingere perché qui i nemici si vedano". Sottolinea la parola "vedano", come a dire che qui basterebbe guardarsi, vedersi, per riconoscersi meno nemici, più simili. "Capisci che qui non si parla di occupazione? Nessuno dice la parola "occupazione" semmai "territori". In Israele c'è emarginazione, e nei territori occupati c'è qualcosa di molto simile all'apartheid". Parole grosse, lucide, chiare. Gli chiedo se molti in Israele pensino che lo stato è forte e può gestire questo status quo. "È un rischio reale, anche perché è tecnicamente vero. Ma dove la gente sta male, viene umiliata, depressa, come si può mantenere lo status quo? Per Israele, magari, ma loro? Lo abbiamo visto con l'intifada. Succederà ancora, se non si mette fine a questa situazione. Ma il processo di pace dobbiamo iniziarlo, non assecondarlo".
Gli intellettuali fanno quel che devono? "Stiamo facendo molto. Ma non è mai abbastanza. Io faccio quel che devo sui media, ma soprattutto nei miei romanzi. Dobbiamo curarci anche con la letteratura, che ci mostra le nostre contraddizioni, ci fa diventare esitanti, ci toglie la corazza. E ci fa capire il nostro nemico, un uomo anche lui. La letteratura massaggia le nostre coscienze. Sai qual è il vero dramma del Medio oriente? La guerra ci depriva della complessità umana, ci fa diventare tecnocrati concentrati, senza dialogo interiore. Le arti, in generale, servono ad essere in questa vita integralmente, non tanto a comprenderla. Sono un organo metafisico per bilanciare il trauma, sono un antidoto per evitare che ci ammaliamo di dimenticanza: chi siamo come esseri umani individuali. Se 10 milioni di persone guardano un reality, diventano tutti uguali, se leggono tutti lo stesso libro, si generano dieci milioni di esperienze diverse, di riflessioni originali. Capisci?". Splendido.
(ANSAmed).

 

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