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Isis: regista Obino, con la telecamera in carcere jihadisti

Adolescenti incerti, cercano in Califfato una casa e un'identità

Redazione Ansa

(di Luciana Borsatti)

ROMA - "Ce li aspettavamo aggressivi, determinati. E invece abbiamo incontrato ragazzi giovanissimi, al massimo ventenni, che in realtà cercavano in modo quasi infantile un'appartenenza, un'identità". A parlare con l'ANSA è il regista Stefano Obino, che sta lavorando ad un documentario su jihadisti e 'returning fighter' nel carcere minorile di Wiesbaden, in Germania, protagonisti di un progetto di recupero che passa per il teatro ed il Corano.

La maggior parte di loro, immigrati di seconda e terza generazione, provengono proprio dai quartieri periferici di Francoforte, dove si è svolto il maxiblitz antiterrorismo di ieri. A pochi chilometri si trova il carcere dove lui e la casa di produzione italiana TFilm sono riusciti a far entrare per la prima volta una telecamera, dopo aver convinto le autorità tedesche della validità del progetto: il documentario 'Bare-Handed - A mani nude', per il quale è appena partita una campagna di crowdfunding. Le riprese sono in corso, ma già il trailer ed i primi clip dicono molto dell'esperienza di recupero messa in atto dal regista teatrale Arne Dechow e da Martin Meyer Husamuddin, un tedesco convertito dall'islam e divenuto imam del carcere. Significativa la 'confessione' di Mustafa: "Qui in Germania - dice, il volto seminascosto dal cappuccio - non puoi pregare in pace, sei discriminato. Ho incontrato molti reclutatori: dicono che laggiù è meraviglioso, che puoi vivere secondo i principi islamici. Che puoi combattere per l'islam ma se non vuoi puoi solo vivere lì". "L'Isis? Non so esattamente - prosegue il ragazzo - da una parte sembrano terroristi, dall'altra sembrano gente che vuole vivere l'islam in pace. E cosi sono in questo dilemma, non so cosa sia il Bene e il Male".

Una testimonianza da cui emerge, osserva ancora Obino, che l'Isis "è un'occasione di riscatto sociale, una forma di identità culturale. Altri giovani raccontavano: 'se andiamo in Algeria non ci sentiamo algerini, qui in Germania non siamo tedeschi'. E dunque il Califfato diventa per loro 'casa nostra', un luogo dove essere se stessi prima che combattere il jihad". Uno spettacolo già andato in scena, per il pubblico nel teatro del carcere, raccontava in chiave ironica di un paradiso immaginario dove si incontrano un attentatore suicida e il cantante 'rasta' vittima dell'esplosione. Ma dal 'work in progress' sulla scena teatrale emerge anche tanta rabbia, quella di Aidin, per esempio: adolescente di origine turca deriso a scuola come 'il musulmano', sebbene lui nemmeno avesse un Corano in casa. "Lontano dai palazzi di Bruxelles - conclude Obino - un regista ed un imam cercano di creare una nuova cultura europea, che non emargini ma sappia includere". 

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