(di Stefano Giantin)
(ANSAmed) - BELGRADO, 14 AGO - I Balcani occidentali sono
l'area d'Europa con la più alta concentrazione di "foreign
fighters" rientrati dalla Siria e dall'Iraq e l'Europa dovrebbe
aiutare la regione a far fronte a questa sfida a lungo termine.
Lo suggerisce Adrian Shtuni, Ceo della Shtuni Consulting e fra i
principali esperti di terrorismo e d'estremismo violento nei
Balcani, in un'intervista all'ANSA.
"Uno dei principali risultati della mia ricerca è che i
Balcani occidentali sono attualmente la regione in Europa con la
più alta concentrazione di "returnees" dalla Siria e dall'Iraq,
spiega Shtuni. "Il numero ufficiale è di circa 460 persone. La
concentrazione è ancora maggiore se si prendono in
considerazione le singole nazioni. Il Kosovo conta 134 ritornati
per milione di abitanti. La Macedonia settentrionale ne ha 42
per milione. Per mettere in prospettiva questi numeri, il Regno
Unito ha 6 rimpatriati che pongono 'problemi di sicurezza
nazionale' per milione, Germania e Francia circa 4 per milione.
L'Italia ha solo 12 rimpatriati segnalati (0,2 per milione) in
totale". "I numeri descrivono chiaramente le dimensioni delle
sfide sociali e alla sicurezza nazionale", continua l'esperto,
parlando di una partita "a lungo termine che diventa ancora più
scoraggiante se si considerano le risorse finanziarie
insufficienti e le capacità e le competenze specialistiche
disponibili nei Balcani. La necessità di assistenza è
abbondantemente chiara, soprattutto se si considera che altri
500 cittadini dei Balcani occidentali sono ancora in Siria e in
Iraq, detenuti principalmente in prigioni e campi curdi, in
attesa di essere rimpatriati. Il loro eventuale ritorno è
destinato ad intensificare la sfida". Secondo Shtuni, "l'Ue e le
sue agenzie specializzate farebbero bene a prendere in esame
qualsiasi tipo di assistenza per affrontare questo confronto,
meno come 'aiuto ai Balcani' e più come un investimento
strategico nella sicurezza dell'Ue.
Ma che tipo di rischio rappresentano ritornati e rimpatriati
da Siria e Iraq? "Non esiste una risposta univoca", illustra
Shtuni, ma i "ritornati associati in un modo o nell'altro,
attivamente o passivamente, a un'organizzazione terroristica
come lo Stato islamico rappresentano per definizione un
potenziale rischio per la sicurezza nazionale. Tuttavia, è
importante fare una distinzione tra 'rischio' generale di
sicurezza (o pericolo) e 'minaccia' alla sicurezza. Mentre il
potenziale rischio dei rimpatriati non è in discussione, il
fatto che rappresentino o meno una minaccia effettiva dovrà
essere determinato attraverso valutazioni su ciascun individuo
da parte di professionisti. Oltre al monitoraggio da parte delle
forze dell'ordine, i ritornati richiedono supporto psicologico e
sociale per il successo della riabilitazione e del
reinserimento. Il primo obiettivo sarebbe quello di ottenere che
i ritornati - e quelli che escono dalle carceri dopo aver
scontato una pena per attività terroristiche - si distacchino
dall'estremismo violento".
Ma ci sono anche aspetti, come quello dei bambini (dei
foreign fighter, nda), nati nel teatro guerra, minorenni che
"dal punto di vista umanitario sono vittime, perché non hanno
deciso di andare o di nascere in Siria e Iraq. Tuttavia, non è
possibile ignorare il fatto che alcuni hanno ricevuto
addestramento militare in campi terroristici, sono stati
pesantemente indottrinati, a volte hanno partecipato a
combattimenti armati e forse all'esecuzione di prigionieri.
Esistono numerosi film di propaganda che mostrano campi di
addestramento per i bambini dei mujaheddin, i 'cuccioli del
califfato'. Allo stesso modo, la lettura che le donne sono state
per lo più vittime, andate in Siria contro la loro volontà, o
sono state manipolate dai loro coniugi, è una generalizzazione
non supportata da prove", spiega Shthuni.
Ci sono invece prove che, sul web nei Balcani, continua la
diffusione di propaganda jihadista. "Mentre recentemente c'è
stato un calo della propaganda jihadista prodotta nelle lingue
dei Balcani occidentali, i "jihadisti dei social media"
continuano costantemente a prendere di mira il pubblico della
regione, a diffondere l'ideologia e la propaganda di
organizzazioni terroristiche come ISIS e al Qaeda, a incitare
alla violenza terroristica", specifica l'analista. "In un certo
senso - continua - ciò non dovrebbe sorprendere in quanto i
"foreign fighter" sono solo la manifestazione più visibile di un
più grande problema jihadista nei Balcani occidentali, che
include coloro che, sebbene impegnati nella causa, potrebbero
non aver mai viaggiato in Siria e Iraq per condurre il jihad con
le armi. Proprio come altrove, in genere sono diventati meno
diffidenti nell'usare la propria lingua rispetto agli anni
precedenti e sono in gran parte migrati dalle piattaforme di
social media più popolari come Facebook o Twitter a quelle che
forniscono più anonimato e crittografia. Ciò rende più difficile
il compito delle forze dell'ordine incaricate di monitorare
questi gruppi di "jihadisti dei social media". La diffusione
online della propaganda jihadista è un fenomeno in atto". "Il
fatto che la presenza jihadista online sia meno visibile
rispetto a qualche anno fa - aggiunge Shtuni - non è
necessariamente un indicatore di un minore impegno per la causa
da parte dei radicali locali. Mentre la sconfitta territoriale
del Califfato potrebbe aver smorzato l'entusiasmo degli
aspiranti jihadisti di combattere all'estero - chiosa l'esperto
- il numero di attacchi terroristici sventati di recente e gli
arresti legati al terrorismo nei Balcani sono indicativi di
attività terroristiche in corso nella regione".
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Balcani: esperto, ritorno foreign fighter sono sfida seria
Ue dovrebbe aiutare finanziariamente e con assistenza tecnica