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Giornalismo e guerra, la difficile ricerca della verità in Siria

Kittleson premiata a Otranto, raccontare complessità conflitto

Redazione Ansa

ROMA - Diventata così pericolosa per i giornalisti che anche grandi media non mandano più inviati e - di conseguenza - non accettano nemmeno i pezzi dei free-lance, pronti a partire a proprie spese pur di raccontare in presa diretta quello che accade al fronte. E' la guerra civile siriana raccontata da Shelly Kittleson, giornalista americana free-lance che vive da anni in Italia, e che invece al fronte ci è andata più volte dal 2012 al 2015: cioè finché la Turchia, precisa, non ha chiuso quella frontiera - usata dai reporter diretti nelle zone tenute dai ribelli anti-Assad.

Shelly Kittleson ne parla al Festival dei Giornalisti di Otranto, dove sabato sera ha ricevuto il Premio Caravella: alle sue spalle, sullo schermo allestito nel suggestivo Largo Porta Alfonsina, scorreva un video tratto da alcune delle foto da lei scattate tra i miliziani e i civili nelle zone più vicine ai tanti fronti della lunga e sanguinosa guerra. Perché appunto le linee del fronte in Siria sono tante come lo sono le parti in gioco (dalle varie milizie ribelli alle tante sigle del jihadismo diversamente declinato, dai combattenti curdi ai numerosi 'sponsor' regionali e internazionali) in un conflitto in cui l'apparentemente prossima sconfitta dell'Isis non sembra affatto semplificare, ma piuttosto complicare, il rompicapo delle alleanze.

"Dobbiamo parlare della guerra in Siria con il coraggio di rappresentarne tutta la complessità", ha detto la giornalista in uno dei dibattiti del Festival, quello su 'Informazione nei teatri di guerra. Raccontare la verità'. E per farlo, ha sottolineato, "bisogna andare sul posto": perché non c'è abbastanza verità nella propaganda di guerra, nei 'briefing' dei comandanti militari, e nemmeno nel vasto mondo dei 'social' e della rete.

Rete che pur è stata utile a Sara Lucaroni dell'Espresso, anche lei tra i vincitori a Otranto, per ricostruire il criminale mercato delle donne yazide rapite dall'Isis, vendute anche su alcune'chat' criptate di Telegram a miliziani, 'foreign fighter', 'emiri' del Califfato a Raqqa e facoltosi acquirenti del Golfo. Perché appunto anche la rete, pur così preziosa, è una giungla dove è difficile districarsi per individuare interlocutori e fonti attendibili.

E quindi Shelly Kittleson è convinta che la 'verità' vada cercata andando direttamente nelle zone di guerra. Come ha fatto lei dal 2010 al 2015 in Afghanistan ("ma del mio ultimo viaggio non sono poi riuscita nemmeno a recuperare le spese", dice); dal 2012 al 2015 in Siria ("la prima volta ad Idlib potevo girare anche senza 'hijab'") e ora solo in Iraq, dove sa di poter contare su un'altra rete di amicizie e conoscenze. Essere donna è un problema?, le viene chiesto. Talvolta sì ma può essere anche un'opportunità, risponde, per esempio quando ti puoi nascondere in un niqab. E il consenso per l'Isis, come si spiega? "E' un sogno di tanti criminali, che poco o nulla ha a che fare con la religione".

Al tavolo con lei (moderatore Stefano Mentana del Post Internazionale), anche Luciana Borsatti di ANSA e ANSAmed - che parla della 'retrovia' iraniana della guerra in Siria, luogo di formazione del consenso e del dissenso verso il sostegno militare di Teheran al presidente Assad - e Felice Blasi, presidente del Corecom Puglia- che segnala i rischi per un'informazione veramente libera in tempi di guerra proprio sui grandi media, più soggetti a pressioni per la loro maggiore diffusione, e nell'epoca del giornalismo 'embedded' e del 'news management' pianificato dai vertici militari.

E laddove vi è un deficit di informazione, viene ricordato nel dibattito, a rischiare è anche la democrazia.

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