(di Sami al-Ajrami)
(ANSAmed) - GAZA, 30 LUG - Il mio telefono squilla alle 18 di
ieri. Il numero è locale, della compagnia Jawal, ma dall'altra
parte c'è un messaggio registrato (in arabo) dell'esercito
israeliano. "Abitanti di Jabalya - dice - dovete lasciare subito
le vostre case perché stiamo per attaccare. Proteggete la vostra
vita, spostatevi nel centro di Gaza". Il messaggio ricorda che a
Sajaya molte persone, rimaste in casa, hanno perso la vita,
mentre a Khuzaa - sostiene - lo sgombero in massa le ha messe al
riparo.
Anche mia sorella ha ricevuto quel messaggio, altri vicini
invece no. Nel frattempo gli anziani sono usciti dalla moschea.
In strada prima, e in casa poi, si cerca rapidamente di
stabilire che fare. Le donne vogliono fuggire. Gli uomini
pensano che andare alla cieca può essere più pericoloso ancora.
Non è immaginabile, aggiungono, che tutti gli 80 mila abitanti
di Jabalya si mettano in moto.
Innanzi tutto, con calma, si preparano le borse da portare
con noi. Mettiamo dentro i documenti personali, un po' di soldi,
gioielli, vestiti di ricambio. Le borse sono pronte, ma ancora
non sappiamo cosa fare. L'edificio è immerso nel buio, non c'è
corrente elettrica. In tutto siamo 17 persone, fa molto caldo.
Ci stringiamo al piano terra, in una stanza interna, la più
sicura. Una radiolina a pile ci collega al resto del mondo. Poi
entro nella mia automobile e accendo la radio. Ma per sapere
cosa succede non sono necessari mezzi di comunicazione: sentiamo
che l'aviazione israeliana è entrata in azione. Attorno
avvertiamo esplosioni. Nessuno capisce cosa mai stiano
bombardando.
Di notte nessuno chiude occhio, tranne i bambini. Ogni tanto
si svegliano di soprassalto, noi cerchiamo di tranquillizzarli.
Alle cinque di mattina le cannonate israeliane colpiscono una
scuola dell'Unrwa, nelle immediate vicinanze: 23 morti (per lo
più donne e bambini) e decine di feriti.
Di prima mattina parto per Gaza city alla ricerca di un
riparo alternativo. Fra me e me decido: innanzi tutto, non
andremo in una scuola dell'Unrwa, perché sono sovraffollate e
non garantiscono protezione; inoltre non ci trasferiremo in zone
più rischiose ancora di Jabalya; infine non permetterò che i
miei anziani genitori si trovino abbandonati in mezzo alla
strada come molti altri, nella piazza del Milite ignoto.
Telefono a mezzo mondo, ma a Gaza case disponibili per noi
non ce ne sono. I prezzi sono schizzati da 750 a 1500 dollari
per tre stanze, che comunque non si trovano. Mi basterebbe un
ufficio, o magari un magazzino. Niente da fare. Un albergo offre
stanze: me ne servirebbero dieci. Ma non lontano c'è una
postazione di Hamas. Mi chiedo: e se fosse attaccata? Allora
rinuncio.
Da Jabalya mi chiamano in continuazione, ma io devo
deluderli. Ho fallito la missione. Tutto sommato, mi dico, la
nostra casa ha tre piani e rappresenta una difesa migliore che
non le esili pareti delle scuole pubbliche. Sono passate 24 ore
dall'avvertimento dell'esercito e siamo ancora al punto di
partenza. Le nostre borse sono pronte, ferme all'ingresso.
Intanto di nuovo cala la sera. Siamo ancora senza corrente
elettrica. Accendiamo la radiolina e inizia un'altra nottata di
paura e di insonnia. "Siamo in trappola", mi dico, "questa volta
siamo proprio in trappola". (ANSAmed).
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