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Il diritto alla salute per tutti passa per un serio contrasto alle disuguaglianze

Redazione Ansa

Di Flavia Belladonna

 

Nel 2023 in Italia il 42% dei pazienti con redditi più bassi ha dovuto procrastinare o rinunciare alle cure per problemi economici, mentre il 37% degli italiani non ha affrontato altre spese per sostenere quelle sanitarie. Sono i dati che circolano in questi giorni sui media e che richiamano l’attenzione su un fenomeno ben noto, ma inaccettabile, del nostro Paese: quello delle disuguaglianze di salute, del rischio di una sanità di serie A e di una di serie B, delle liste d’attesa infinite che costringono quattro italiani su dieci a rivolgersi alla sanità privata.

La Giornata mondiale della salute, che ricorre il 7 aprile, quest’anno è sul tema “My health, my right”, un messaggio che ribadisce l’importanza della salute come diritto umano fondamentale. Un diritto sempre più minacciato nel mondo, per milioni di persone, a causa di malattie, conflitti e cambiamenti climatici, e anche nel nostro Paese, dove lo spettro delle disuguaglianze sembra voler sottrarre proprio ai più fragili il diritto di accesso alle cure.

 

Almeno 140 Paesi del mondo riconoscono la salute come diritto umano nella loroCostituzione, e tra questi c’è l’Italia. La nostra Carta recita infatti, all’Articolo 32, “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Eppure, nonostante la gratuità del nostro Servizio sanitario nazionale, con la sua qualità giudicata sufficiente (valutata positivamente dal 60% degli italiani che se ne sono serviti, secondo dati Censis), la salute delle fasce più deboli della società rimane a rischio.

Il tema delle liste d’attesa, ritenuto “il problema più annoso che ha la sanità italiana” dal ministro della Salute Orazio Schillaci, che settimana scorsa si è impegnato a definire “un piano accurato su questo”, è strettamente correlato con quello degli investimenti, dalle strutture ospedaliere (due ospedali su tre hanno più di 50 anni) al personale (abbiamo 97,4 operatori sanitari per 10mila abitanti). La nuova “Relazione al Parlamento sulla gestione dei servizi sanitari regionali” della Corte dei Conti ha valutato l’incidenza della spesa sanitaria pubblica in rapporto al Pil, evidenziando il gap sempre maggiore tra l’Italia e gli altri grandi Paesi europei: siamo al 6,8% (con una previsione secondo la Nota di aggiornamento al Def 2023 di scendere al 6,1% nel 2026), rispetto al 10,3% della Francia e al 10,9% della Germania. A fronte dei problemi nel pubblico si rileva un forte aumento della spesa privata, in crescita e di molto superiore rispetto ad altre nazioni Ue: nel 2022 la spesa diretta a carico delle famiglie (il cosiddetto out-of-pocket) è stata in Italia del 21,4% di quella totale (pubblica e privata), contro l’8,9% della Francia e l’11% della Germania.

Secondo un appello firmato da 14 scienziati, è necessario dunque definire un piano straordinario di finanziamento del Servizio sanitario nazionale, che ci consenta di allinearci con gli altri grandi Paesi Ue, nonché destinare specificherisorse alla rimozione degli squilibri territoriali, perché le disuguaglianze di salute e nell’accesso alle cure si accentuano tra Regioni e soprattutto tra Nord e Sud. La Relazione della Corte dei Conti, citando i dati del Rapporto Istat sul Benessere equo e sostenibile, sottolinea come chi vive nella Provincia di Bolzano ha una aspettativa di vita in salute di 16 anni in più rispetto a chi vive a Reggio Calabria (69,3 anni contro 53,1). Questo divario trova un riflesso nei risultati dell’indice delle performance regionalidi tutela della salute del Rapporto Crea 2023: il Veneto ottiene il risultato massimo con il 59% (seguono la Provincia di Trento e poi quella di Bolzano), mentre la Regione Calabria il minimo con il 30%. Inoltre, un terzo delle Regioni, tutte al Sud, non supera un livello pari al 35% del massimo ottenibile, mentre le prime tre sono tutte del Nord-Est. In questo quadro possiamo capire insomma che siamo di fronte a un gap che, al di là degli stili di vita, dice quanto la performance della sanità locale influenzi non solo l’aspettativa di vita in generale (-1,3 anni al Sud), ma anche la vecchiaia in salute.

Il Rapporto Crea, oltre a offrire l’analisi, propone di monitorare gli effetti dell’Autonomia differenziata in sanità attraverso un set di indicatori appositamente definiti, in modo tale da verificare che “non si generino arretramenti regionali (almeno rispetto ai Lea [Livelli essenziali di assistenza, ndr], ma si ritiene più in generale anche rispetto alla Performance complessiva), ovvero che tutte le Regioni procedano in un processo di miglioramento, evitando peggioramenti attribuibili a una autonomia più competitiva che cooperativa”. Monitorare risulta dunque fondamentale per assicurare che le già evidenti disparità sociali e territoriali del Paese con l’autonomia differenziata non si accentuino ulteriormente, una preoccupazione già sollevata anche dal Rapporto Svimez-Save the children “Un Paese, due cure. I divari Nord-Sud nel diritto alla salute”, che tra gli effetti prevede una crescita dei “migranti sanitari” (che nel 2022 erano già per il 44% residenti in una Regione del Mezzogiorno), in fuga dal Sud per ricevere assistenza in strutture sanitarie del Centro e del Nord.

Walter Ricciardi, su Avvenire, ha commentato l’appello dei 14 scienziati sottolineando che si tratta dell’“ultima chiamata” per non far collassare in modo definitivo la nostra più grande opera pubblica:

Un sistema sanitario universalistico rimane la garanzia più forte per la resilienza di un Paese, ma se non si metterà presto mano, in maniera politicamente condivisa, a una riforma del Ssn arriveremo rapidamente a un sistema pubblico sempre più povero per i poveri e un sistema privato di maggiore qualità per chi ha fondi aziendali o assicurativi o ha i soldi per pagare. È paradossale che a difendere il Ssn siano rimasti, tra le istituzioni, solo il Presidente della Repubblica che difende ostinatamente un diritto costituzionale e la Corte dei Conti, che continua da anni, con dovizia di particolari, a dire ai governi che spendiamo troppo poco in sanità. L'appello degli scienziati sottolinea che questo non è un problema che riguarda solo medici e infermieri, ma dovrebbe essere una battaglia di tutti gli italiani. Perché evitare che le famiglie si indebitino per curarsi è un principio di civiltà e un dovere per il nostro Paese”.

È importante ricordare anche che le disuguaglianze di accesso alle cure non sono un problema che riguarda “solo” la salute di ciascun cittadino o cittadina, ma anche il benessere sociale. Stefano Cappellini, in un commento su La Repubblica, ripercorre le possibili ripercussioni sulla società generate dal divario di accesso:

Se qualcuno può curarsi e qualcun altro no, se io ho accesso ai trattamenti più avanzati e tu no, se una fetta di cittadini può permettersi una visita in qualunque momento e una fetta no, l’uguaglianza è negata sul discrimine primario, quello tra la vita e la morte, o tra un’esistenza dignitosa e una senza tutele. […] Il principio che ciascuno salva la pelle come può, e chi non può s’arrangia e soccombe, ha conseguenze su ogni altro ambito della vita civile e politica. Produce rancore, sfiducia nelle istituzioni, odio sociale. Mina la stessa democrazia, perché ne svuota di senso la missione ultima e favorisce ogni possibile tensione anti-sistema. Del resto, perché partecipare a un sistema dove il valore e la salvaguardia di una vita sono basati sulla capienza della carta di credito?

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