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In un mondo che invecchia, gli anziani non possono essere soltanto un peso

Redazione Ansa

Di Donato Speroni

         

L’anno della svolta potrebbe essere il 2064, esattamente tra quarant’anni. Secondo diversi studi, per quella data la popolazione mondiale raggiungerà il picco, stimato attorno ai 10,9 miliardi, per poi cominciare a decrescere. La ragione principale del calo è la brusca diminuzione della fecondità femminile: in tutto il mondo si fanno meno figli e questa propensione per famiglie più piccole sta arrivando anche in Africa dove fino a poco tempo fa la media era di sei figli per donna.

Per avere un’idea dell’entità della svolta, si pensi che attualmente nascono sette bambini per ogni persona che compie ottant’anni; nel 2100 invece si stima che ci sarà una sola nascita. E gli ottantenni del 2100 avranno di fronte a sé una speranza di vita di almeno altri 10 anni, non necessariamente in cattiva salute se sono vere le previsioni degli studiosi di futuri per i quali siamo prossimi a raggiungere l’immortalità biologica, cioè la capacità di combattere non solo le malattie (per arrivare comunque a una situazione di decrepitezza attorno ai 90 anni e al limite massimo della vita attorno ai 110), ma anche l’invecchiamento cellulare, prolungando quindi non solo la vecchiaia, ma l’età adulta in piena salute.

Molti temono che il calo demografico e l’aumento dell’età media possano tradursi in una minore vitalità dell’umanità in termini sia di creatività sia di dinamica del sistema economico sostenuto dalle dimensioni della domanda globale. D’altra parte un’umanità più ridotta, con consumi minori e con una produttività fortemente supportata dalle macchine come possiamo immaginare che sarà il mondo del 2100, potrebbe forse vivere meglio e garantire un minore stress sul Pianeta così tanto maltrattato in questo 21esimo secolo.

Anche se guardiamo a orizzonti più vicini, il quadro demografico è comunque rivoluzionario rispetto alla situazione attuale: popolazioni più anziane, soprattutto nei Paesi più sviluppati, drastiche riduzioni del numero degli abitanti in nazioni importanti come Giappone e Corea (ma anche Cina), economie che si restringono. Le ricette per far fronte a queste tendenze insistono sulle politiche a favore della famiglia per favorire la natalità, certamente necessarie ma non risolutive, su una gestione controllata ma consistente dell’immigrazione (tema politico scottante, che si tende ad accantonare nel dibattito), ma raramente si concentrano sulla condizione degli anziani, generazione sempre più numerosa e influente: come garantire a tutti una vita “decente” e quale può essere il ruolo nella società di questa gran massa di “vecchi” considerati finora un peso a carico della società.

La maggiore consistenza numerica e le migliori condizioni di salute della popolazione in età anziana porteranno a ridefinire anche ilrapporto tra lavoro e pensionamento. La consistenza della popolazione considerata “in età attiva” abbraccerà anche una fascia significativa di popolazione più anziana rispetto ai canonici 65 anni che più o meno in tutto il mondo sono considerati l’età del pensionamento. Ci sono certamente lavori logoranti che devono essere abbandonati a quell’età o anche prima, ma ce ne sono molti altri che invece possono essere svolti anche oltre quella soglia. Inoltre la ricchezza di un Paese non è fatta soltanto dai lavori retribuiti che entrano a far parte del conteggio del Prodotto interno lordo, ma anche della rete di attività di volontariato, spesso svolte dagli anziani.

Si pone dunque il problema di come valorizzare al meglio questa consistenti fasce della popolazione. Serviranno nuove modalità di transizione tra lavoro e pensione, magari con facoltà estesa di lavorare part-time; normative di valorizzazione del volontariato, ma anche attività di formazione continua per far sì che chi deve abbandonare il lavoro svolto nella prima parte della vita possa essere attrezzato per altre attività utili per la società e anche per sé stesso, per la propria soddisfazione.

L’Italia è tra i Paesi che devono affrontare con maggiore attenzione il problema dell’invecchiamentodella popolazione non solo perché il nostro indice di fecondità è tra i più bassi d’Europa, ma anche perché il Paese è sempre meno attrattivo: come ricorda una ricerca dell’Italian Institute for the future, il 35,8% dei ragazzi italiani vede il proprio futuro fuori dall’Italia, percentuale che sale al 48,4% per le ragazze. Ed è poco interessante anche per gli stranieri, che vedono l’Italia più come Paese di transito anziché di insediamento.

Se poi spingiamo lo sguardo al 2050, si prevede che per quella data sei persone su dieci avranno più di sessant’anni. Se non riusciremo a valorizzare l’apporto degli anziani nella popolazione attiva si creerà una tensione difficilmente sostenibile sulla popolazione in età da lavoro che dovrà mantenere un numero troppo elevato di pensionati.

C’è poi il problema molto attuale deglianziani non autosufficienti, un numero inevitabilmente destinato a crescere con l’invecchiamento della popolazione. Il Rapporto annuale 2023 dell’ASviS ne sottolineava l’importanza. Tra le riforme volte a incidere sulle disuguaglianze e sulla qualità dell’accesso ai servizi essenziali il Rapporto sottolineava che 

La riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti segna un passo importante nella direzione di un sistema di welfare unitario e integrato. Secondo l’Istat, si tratta di 3,8 milioni di anziani con disabilità di natura fisica e/o mentale, destinati ad aumentare nei prossimi anni. La riforma, se ben disegnata attraverso i necessari decreti legislativi e un corrispondente incremento delle risorse pubbliche dedicate, oltre a migliorare la qualità della vita degli anziani potrà anche promuovere un miglioramento della libertà sostanziale di milioni di donne, sulle quali grava primariamente l’impegno familiare di assistenza.

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